di Tano Siracusa

Benares ’95

La prima cosa da fare entrando in una camera di hotel è aprire la finestra, affacciarsi e guardare fuori.
A Benares la finestra dava su una strada trafficata, dove automobili vacche biciclette e pedoni si mescolavano in una ipnotica baraonda che cercavo di ordinare inquadrando dentro il mirino.
Avevo ammirato le foto scattate in India da Cartier Bresson e da Marc Riboud, il loro l’equilibrio formale, l’eleganza nella ricchezza delle composizioni e nella improbabilità degli attimi fissati che sembravano e non erano frutto di posa, semmai di attesa.
Dopo il tramonto a Benares la stazione si riempiva di persone che vi trascorrevano la notte, mentre le vacche si aggiravano riflessive fra i corpi stesi sul pavimento e qualcuna scendeva giù fino ai binari.
Ma per convincersi che lo sguardo dei maestri francesi se non l’unico possibile era quello a me più congeniale, bisognava attraversare la città fino al fiume, arrivare sulle sponde del Gange, fra la moltitudine di cani sonnolenti e di mortali frettolosi che vi accompagnavano sulle lettighe pieni di fiori i corpi dei defunti. Non era raro riconoscere sulle sponde del fiume e nella foschia luminosa delle strette vie che vi conducevano il ‘come se’, la posa spontanea delle scene, un’nvisibile regia nel caso; ma in quelle inquadrature mancava l’ ‘eccesso’ della folla, di corpi, anime e simboli, quel mescolarsi furibondo e placato di luce e ombre, di vita e morte. Era facile fotografare per strada e ovunque perché a Delhi, ad Agra, a Benares gli occidentali con le macchine fotografiche venivano percepiti come delle creature bizzarre, persone da osservare come curiose manifestazioni della stravaganza umana. Era tuttavia difficile fotografare bene, incrociare la geometria con l’attimo, la struttura di una forma con l’ondeggiante agitarsi della folla, tanto più difficile quanto più larga era l’ottica usata e profonda la messa a fuoco. Avrei visto anni dopo le fotografie scattate a Benares da M. Ackerman con ottiche anche molto panoramiche, ammirando la sua scommessa vinta di aprirsi al drammatico, teatrale e per me inafferrabile caos della strada.
Al contrario tendevo a volte a semplificare, tagliavo le figure come avevano fatto Caillebotte e Degas anticipando di sessanta anni Cartier Bresson e i fotografi, approfittavo della luce abbacinante per inquadrare le ombre.
Dalla finestra dell’hotel a Benares avevo decapitato vacca e ciclista con uno zoom, sacrificando anche la simmetria orizzontale dell’inquadratura. Sacrificio che probailmente oggi eviterei. Per strada con il 28 millimetri le inquadrature erano affollate, larghe, ma non abbastanza da includere quella paradossale combinazione di caos e armonia, l’ incomprensibile equilibrio in cui ci si sentiva immersi. Prevaleva l’ordine’, il ‘come se’ di una regia inesistente, oppure il caos. Ma come sempre il viaggio sarebbe terminato in camera oscura.
Un mese dopo vi avrei scoperto un fotogramma diverso dagli altri, un frammento, forse, di quel fantasmagorico addensarsi, agitarsi e moltiplicarsi della vita e delle sue forme che inseguivo. Come il ritaglio di un gigantesco arazzo, di un formicolante dipinto di Bruegel. Era un fotogramma che avevo scattato a Bhaktapur. Un fotogramma ‘sbagliato’.

*


Da Delhi a Kathmandù erano stati tre giorni di viaggio con un autobus traballante sui tornanti in salita, mentre dalle finestre alcuni passeggeri entravano e uscivano per sdraiarsi sul tetto, fra i bagagli e al fresco. Ai bordi della strada crescevano alte piante di marijuana.
Nella capitale del Nepal si trovava la stessa folla lasciata in India, ma lo scenario era adesso quello di una malandata città di magnifici templi e palazzi e botteghe appartenenti a un fiabesco medioevo buddista, sontuoso e completamente invaso dalla spazzatura. Uno sciopero che durava da mesi degli addetti alla rimozione dei rifiuti aveva prodotto colline di spazzatura fra cui formicalava una folla indaffarata. I monaci buddisti e i pochi turisti occidentali andavano in giro con le mascherine non solo per la spazzatura, ma soprattutto per il fumo appestante dei vecchi motori scassati che toglieva il respiro. Di notte branchi di cani randagi sonnecchianti nel caldo umido del giorno si aggiravano fra i risciò e gli insonni probabilmente senza dimora.
C’era stata una protesta, una manifestazione che aveva paralizzato la città per un’intera giornata, una protesta pacifica, durante la quale si era anche potuto fotografare tranquillamente.
Cambiava tutto a Bhaktapur, non lontana dalla capitale, dove Bertolucci aveva girato Il piccolo Buddha, che istigava la frenesia del fotografo e inevitabilmente la frustrava. C’era una festa che durava una settimana: decine di processioni, bambine truccate, vestite e addobbate come statue portate in giro su alte impalcature, piccole divinità di carne, pelle e sguardo vitreo, i canti, la musica, le scimmie e gli elefanti, i fumatori di hascisc appartati di sera nelle vie buie, i profumi di spezie e incensi lungo i ruscelli, i sorrisi insensati. Più che essere invisibile il fotografo avrebbe voluto essere ubiquo.
Prima ancora di stamparne un provino quel fotogramma mostrava nella luce dell’ingranditore di approssimare la cifra di quell’ eccesso che mi aveva stordito, che stregava. E mostrava anche la sua genesi, l’antefatto. Il fotogramma scontornato era l’ evidente conseguenza della involontaria sovrapposizione di due scatti. Una parziale, involontaria e fortunata doppia esposizione. Un caso. Nella fretta di tirare la pellicola per lo scatto successivo, di essere già da un’altra parte, due fotogrammi si erano parzialmente sovrapposti. Almeno in uno dei due scatti, ma forse in entrambi, avevo inquadrato dei riflessi.
In camera oscura avrei constatato con soddisfazione che un errore e il caso avevano creato una fotografia che aveva un senso e che meritava di essere stampata.

Bhaktapur ’95