di Vito Bianco
Circola da tempo un aneddoto (un apologo?) che, se non è vero, potrebbe presto o tardi diventarlo: un turista giapponese, dopo una giornata in giro per calli e campielli, sul far del crepuscolo ferma un veneziano e gli chiede: “Mi scusi, a che ora chiude Venezia?”
Vera o falsa che sia, la storiella del giapponese che scambia la città lagunare per un parco a tema che a una certa ora chiude i cancelli (il tema: Venezia) dovrebbe far riflettere sul pericolo che corrono le maggiori tra le nostre città storiche, a cominciare proprio dalla più imitata, dipinta, visitata e fotografata. Quale pericolo? Diventare appunto dei parchi tematici per turisti compulsivi e viaggiatori colti; per scolaresche chiassose e disciplinati pensionati che si godono il meritato riposo periodicamente visitando “la storia”.
La questione della salvaguardia dei centri storici è una questione cruciale, ma non può essere affrontata isolatamente, staccandola dalla più generale e vitale questione dello spazio urbano nella sua interezza. Così facendo si rischia di creare due micro mondi separati dal censo, due città che non comunicano: una turistica e pedonalizzata, abitata da benestanti che potranno sostenere gli alti affitti e i prezzi di vendita degli immobili; l’altra periferica e inquinata, destinazione obbligata di tutti quelli che non saranno più in grado di sostenere l’aumento dei costi degli alloggi.
I sociologi hanno dato un nome a questo esodo involontario dal centro alla periferia: gentrification, che in sostanza significa modificazione a scopi speculativi del carattere sociale dei quartieri antichi ma non solo.
Palermo, per stare al caso che ci riguarda, corre seriamente questo rischio. Rischia cioè di scindersi in due città separate; di fare del suo centro storico un’isola felice che volta le spalle e ignora il resto del suo grande corpo, fatto anche di zone nuove e periferie malvissute e disagiate che bisognerebbe far rinascere, includendole in un progetto organico, integrato; nel fuoco di visione di una città futura che includa ogni singolo quartiere, nessuno escluso.
Mi domando se è questa la città che vogliamo. Vogliamo una città che sfoggia un’area storica liberata dal traffico a scapito della periferia? Vogliamo davvero trasformare il nucleo antico di Palermo (o di Agrigento, Firenze, Milano, Torino) in un museo a cielo aperto, in un itinerario monumentale a uso e consumo dei visitatori, dei molto corteggiati turisti?
Non pochi, anche tra gli osservatori più avvertiti e non facilmente fuorviabili dai ritocchi di facciata che illudono sulla sostanza reale si erano convinti che Orlando si fosse finalmente deciso a trasformare il capoluogo siciliano in una “Barcellona del Sud”, e ne vedevano il chiaro segno nel divieto alle macchine in gran parte dell’area che va dal Massimo alla Cattedrale, dai Quattro Canti a piazza Bellini a – sul lato del mare – piazza san Domenico e piazza Marina.
Confesso di invidiare il loro ottimismo, ma non posso fare a meno di notare che l’attuale sindaco di Palermo, già oltre il giro di boa del quinto mandato, ha avuto tutto il tempo necessario per realizzare questo ambizioso progetto urbanistico. Perché non l’ha fatto? Non l’ha fatto perché ha sostituito la visione politica della città nel senso più lato del termine con la proiezione narcisistica della città-vetrina dei grandi eventi che finiscono sui giornali ma lasciano il tempo che trovano.
E forse è utile ricordare che la pedonalizzazione è il risultato di una circostanza favorevole che surroga la mancanza di un serio piano per la mobilità e di una direzione di marcia già stabilita da un meditato programma amministrativo: ovvero l’imprevedibile benestare dei commercianti di via Maqueda, i quali chiesero che una chiusura temporanea venisse trasformata in una chiusura permanente, dopo aver scoperto, udite udite, che una strada senza macchine fa aumentare le vendite.
In passato era accaduto il contrario: un provvedimento di chiusura ritirato dopo una settimana per l’opposizione degli stessi negozianti, il che la dice tutta sulla reale autonomia politica di un amministratore che si fa dettare l’agenda da una lobby che, in quanto tale, guarda quasi sempre al proprio vantaggio economico.
C’è poi da dire, a proposito di Barcellona, che il capoluogo catalano non è diventato per un miracolo la città amichevole e a traffico limitato che conosciamo. Ha una storia unica, una tradizione di amministratori illuminati, degli abitanti che considerano il territorio urbano un bene comune. È possibile trapiantare tutto questo a Palermo? Sarà mai possibile, a parità di efficienza della rete pubblica dei trasporti, convincere l’automobilista palermitano a spostarsi in tram o metropolitana (che ancora non c’è)?
Chi vive a Palermo o ci ha vissuto anche solo per qualche mese conosce la risposta. Ma tutto è possibile sul lungo, lunghissimo periodo. C’è solo un inconveniente: saremo tutti morti. È un guaio, ma non ci si può far nulla. Ne godrà chi ci sarà.
Voglio a questo punto ribadire un’idea alla quale sono molto affezionato. Ed è questa: le città si salvano e acquistano energia per l’avvenire nella loro interezza o non si salvano affatto. Puntare sulla salvaguardia dei centri storici (sacrosanta) senza sapientemente legarla a un progetto complessivo che coinvolga tutto “l’organismo urbano” è miope, autolesionistico e finisce col fare gli interessi di pochi a danno di molti. Negli anni Settanta questa visione complessiva fu riassunta in uno slogan: “Ripartire dalle periferie”. Che quelle buone intenzioni abbiano dato pessimi risultati, non vuol dire che l’idea fosse sbagliata; era sbagliato il modo, superficiale e disorganico di realizzarla, che ha prodotto quello che ancora abbiamo sotto gli occhi: quartieri alla deriva privi di servizi e isolati, condomini sgraziati, slarghi anonimi di cemento al centro del nulla, comunità emarginate
Vicino o lontano, il futuro delle città comincia nel presente, con le scelte fatte da chi è chiamato a farle, con l’autonomia delle amministrazioni, col rifiuto delle demagogie e degli inganni che fanno guadagnare consensi ma creano nuovi disagi, con una visione della forma urbis che veda in ogni tassello una parte che contribuisce a realizzare il tutto, una parte che è già il tutto ma che da sola non può stare perché morirebbe di inedia o di congestione – di abbandono e solitudine.
Salvatore Settis ci ha di recente ricordato che sono tre i modi in cui muoiono le città. Il primo è la distruzione ad opera di un nemico; il secondo è la conquista e la cacciata degli autoctoni insieme ai loro dèi; “infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi” (Se Venezia muore, Einaudi).
È bene allora non dimenticare che c’è una maniera di perderla, questa memoria di sé (la memoria che la città ha di se stessa, e che gli abitanti hanno della città) che consiste nel recintare (anestetizzare), staccandoli dal tutto a cui intimamente appartengono per venderli ai viaggiatori di passaggio, i luoghi in cui essa più fittamente dialoga col presente della sua esistenza attuale, contraddittoria e cangiante, faticosa e conflittuale perché viva e vera.