di Vito Bianco
In uno degli articoli riuniti in volume col titolo Fatti diversi di storia letteraria e civile (Sellerio) Leonardo Sciascia riflette sul provincialismo e ne dà una definizione chiara in sintonia con quella generalmente accolta e alla quale subito pensiamo quando sentiamo o leggiamo la parola. Il provincialismo sarebbe, secondo questa corretta e condivisa descrizione, la chiusura nel ristretto ambito del proprio luogo periferico, sentito come il centro del mondo, che si accompagna alla sopravvalutazione delle sue manifestazioni culturali e alla volontaria ignoranza delle correnti artistiche e letterarie più avanzate.
Questo è però solo un aspetto del fenomeno. L’altro, opposto, si manifesta nella disposizione preventivamente favorevole con cui alcuni – molti o pochi, colti e meno colti – che vivono in una piccola cittadina di provincia abbracciano qualunque moda o prodotto culturale e artistico che arrivi da una città considerata centro propulsivo di avanguardia e modernità.
Costoro non giudicano la cosa in sé, ma quel che sta intorno alla cosa: il nome, la provenienza, quel che se ne dice, quel che ne dice un certo critico, un certo giornale…
La cosa in sé (romanzo poesia quadro saggio filosofico) diventa, nel suo sguardo pigro e miope, l’elemento meno importante di una piramide che ha come vertice l’aura prodotta dalla fusione mistica delle voci sopra elencate, e finisce col ridursi a mero pretesto per l’incensamento e l’apologia dell’autore, il quale si presenta già sublimato dalla incolmabile distanza che lo trasforma in una indiscussa autorità.
Ma è noto che il provincialismo non alligna solo in provincia, non è un fenomeno che si identifica con la delimitazione geografica a cui allude il nome che lo designa. Per rendergli la giustizia che merita dobbiamo considerarlo una condizione dello spirito che trascende l’ambito geografico e induce una sorta di debolezza caratteriale che impedisce di guardare con i propri occhi, leggere con la propria testa e ascoltare con le proprie orecchie.
Si può perciò essere autenticamente provinciali abitando a Parigi, a Milano o a New York, e cosmopoliti, aperti, sensibili anche vivendo noiosamente a Canicattì, a Fidenza o ad Ascoli Piceno.
Il rovescio simmetrico del provincialismo ‘esterofilo’ è l’aprioristica sottovalutazione delle creazioni artistiche e letterarie di chi ha il solo torto di vivere accanto al malato di provincialismo. Uno stupore incredulo o la più sorda indifferenza è la risposta con cui questo tipo di provinciale (ma esterofilia e sottovalutazione delle espressioni locali sono le due facce di una stessa medaglia) accoglie il libro, la mostra o il disco dell’amico o conoscente; questo rifiuto è certo una non dichiarata forma di invidia; ma credo sia rintracciabile, in forma ancora più sottile e nascosta, un ‘complesso’ complesso di inferiorità, quello di chi in segreto sente di non essere all’altezza di quella frequentazione disturbante e inquinata dal sospetto che l’umiltà dell’amico letterato o filosofo non sia che falsa modestia. Il suo contrario è quello che potremmo chiamare ‘modello Max’, dal nome dell’amico e primo biografo di Kafka, del quale conservò e curò amorevolmente gli scritti inediti. In questo caso, nessuna prossimità e quasi quotidiana frequentazione impediscono la sagace valutazione di un dono così vicino e così lontano.
‘Se davvero fosse uno scrittore non sarebbe con me tanto alla mano, tanto disponibile’, si dice forse il provinciale che non sa di esserlo (nessun provinciale lo sa), al quale niente può mai suggerire la storia di quell’amicizia o di altre simili. E qui si riaffaccia l’idea che per essere dei veri artisti occorra situarsi fuori dal mondo, essere scostanti, stranieri in patria, ovviamemente eccentrici: in breve, il vecchio cliché romantico di lunga durata che sembra puntare all’eternità. Nulla o quasi nulla sembrano contare le esistenze esemplari di artisti e scrittori ‘invisibili’ che dimostrano – ribaltando l’equazione – che si può essere ordinari nella vita e straordinari nell’arte.