di Tano Siracusa
Che “le configurazioni più ordinate siano meno probabili” è un’ evidenza che riconduce al secondo principio della termodinamica, al concetto di entropia, e suggerisce un fondamento teorico ad una possibile griglia di interpretazione delle immagini. Sicuramente di quelle fotografiche.
Quanto maggiore e complicato l’ordine composiitivo, la trama geometrica, tanto maggiore il ‘funzionamento’ estetico dell’immagine, la sorpresa, l’intensificazione dello sguardo che l’osserva: è una specie di regola implicita, credo mai dichiarata da Cartier-Bresson, ma inscritta nel suo modo di fotografare che è poi stato quello di moltitudini di fotografi, più o meno talentuosi. Un vero e proprio canone. Cercare e trovare l’ordine nel disordine che lo circonda e che cerca incessantemente, come tutti, di arginare: è questa la principale ambizione di un certo tipo di fotografo e questo il suo modo di usare la camera fotografica. Ma se vi riesce inquadrando nel mirino non è detto che avvenga altrettanto nella vita quotidiana.
I cosiddetti ‘disordinati’ sono soltanto persone che hanno maggiore difficoltà ad arginare l’entropia, e i fotografi malgrado la loro passione per l’ordine possono essere fra quelli che passano troppo tempo alla ricerca di oggetti smarriti; anche in un ambiente circoscritto, all’interno di un auto, di una cameretta, su una scrivania. O in quello che dovrebbe essere un archivio fotografico di migliaia di fotografie scattate in trenta anni con varie pellicole in bianco e nero e che è invece un confuso agglomerato di buste e svariati contenitori sparso in diversi ambienti, rigurgitanti strisce e strisce di negativi che negli anni si sono accumulati e rimescolati. Proprio come negli esperimenti che mettendo in comunicazione sistemi prima separati confermano la spontanea, naturale tendenza al disordine: delle molecole di due gas come di un numero indeterminato ed esagerato di negativi fotografici.
Nella vita reale mentre il disordine si produce spontaneamente, il processo inverso, dal disordine all’ordine, può solo essere il risultato di lavoro, energia, fatica. E anche attitudine. Chi ne è poco fornito o del tutto sprovvisto è esposto alla frustrazione e a un senso di impotenza, fino alla resa al caos quotidiano. In casi estremi fino alla delirante supposizione che gli oggetti siano provvisti di una loro dispettosa autonomia cinetica, un capriccioso piacere di occultarsi. Per un fotografo vittima del disordine che lo circonda e incapace di arginarlo, pretendere di trovare in poco tempo il negativo di una foto del ’94 scattata a Matera o a Kathmandu nel ’95, confusa fra tante migliaia di altre, è come pretendere di vincere alle slot machine.
Per provarci occorre un particolare stato d’animo, un cielo e un umore grigi, una rassegnata previsione di insuccesso, un’accidia instupidita che permette il minimo dispendio di energie fisiche nel guardare uno dopo l’altro tutti quei piccoli rettangoli trasparenti dove la luce, in una frazione di secondo, ha impresso sulla pellicola l’immagine inquadrata nel mirino e quasi sempre dimenticata, la sua impronta rovesciata, spettrale, in un tempo e un luogo lontani, spesso non individuabili.
In camera oscura si lavorava di sera, di notte. Si faceva un veloce provino di stampa solo dei fotogrammi che sembravano migliori. Nove su dieci venivano poi cestinati, gli altri stampati accuratamente su formati più grandi. Nell’ingranditore scorrevano negativi spesso scattati più di un mese prima in occasione di un viaggio, distribuiti in venti o trenta pellicole da 36 pose. Dopo qualche ora di camera oscura si diventava meno lucidi ed è comprensibile che di uno scatto particolarmente complesso, un gioco di riflessi o di ombre, un ‘mosso’, si evitasse di fare il provino, magari rinviandolo a una seconda occasione, alla prossima serata di stampa durante la quale invece si preferiva vedere e stampare altro. Tanto i negativi erano lì, in una busta accanto ad altre custodie di negativi, ciascuna con un titolo per l’identificazione. Poi il semplice trascorrere del tempo ha spostato quelle strisce di negativi da un contenitore a un altro, da una busta a un’altra, da quella originaria che raggruppava gli scatti secondo la loro successione cronologica a una nuova che li raggruppava per accostamenti tematici e predilizioni visive, ‘finestre’, ‘specchi’, ‘mani’, spesso sollecitati da qualche pubblicazione. Adesso con lo scanner si può lavorare in qualunque momento della giornata, comodamente seduti, e soprattutto si può osservare con maggiore precisione l’immagine.
In una grigia mattinata di dicembre ho cominciato a cercare la foto scattata a Matera. E siccome non si trovava e non avevo di meglio da fare ho continuato per ore, per pomeriggi e mattinate, galleggiando su vaste stagnazioni di tempo in giornate tutte simili, fino a quando mi sono accorto di avere messo da parte diverse decine di strisce di negativi da vedere per la prima volta con un piccolo scanner.
La ricompensa per una ricerca per molti versi insensata sono queste e le tante altre immagini mai più viste dopo lo scatto, alcune delle quali completamente dimenticate.
Sono immagini prive quasi tutte di ancoraggio a un ricordo, a una informazione sul dove e il quando. Anche se dimenticato, un mese dopo uno scatto veniva riconosciuto, ricordato, venti anni dopo no.
L’ astrazione dal dove e dal quando priva molte di queste fotografie di ogni efficacia documentaristica, di ogni ambizione di testimonianza. Nessun riferimento all’ ‘originale’ può confermare il mimetismo della copia, neppure nel ricordo. Potrebbe averle scattate un doppio del fotografo con le sue identiche predilizioni.
Ma soprattutto sono copie di originali ormai inesistenti, scomparsi anche dalla incerta custodia della memoria personale. Fotografie che si offrono come pure immagini, spaesate, isolate, affidate alla istintiva osservanza di un canone e al ritorno di personali ossessioni visive. Riapparizioni per chi le ha scattate, ma che ritornano come nuove apparizioni. Ciò che le fotografie non sono e non dovrebbero sembrare.