di Tano Siracusa
Per quasi un secolo, durante il suo lungo sviluppo, la fotografia è rimasta in bianco e nero. C’era un mercato delle stampe fotografiche dipinte a mano e molti pittori a metà ‘800 avevano preferito farsi largo nella bohème parigina mettendo da parte i pennelli e allestendo uno studio fotografico. I fotografi si muovevano nell’ ambiente artistico, ne facevano parte. La prima mostra degli Impressionisti nel ’74 viene allestita nello studio di Nadar, ed è singolare che proprio gli artisti che mettevano in discussione il canone della somiglianza della copia all’originale, esponessero nello studio del famoso fotografo. Il bianco e nero esaltava la dimensione grafica, una spazialità che si rifaceva nel paesaggio e nel ritratto alla tradizione e alle convenzioni delle arti visive, disegno e pittura, ma che si inoltrava anche nella ricerca della scomposizione del movimento, del ‘mosso’ fotografico dei futuristi, o nelle sperimentazioni visive legate alle varie avanguardie storiche del primo ‘900. L’avvento del colore nella fotografia ha costituito un passo avanti in direzione sia del mimetismo che della sperimentazione, anche se per lo sviluppo e la stampa, cioè per il controllo e la gestione del colore, occorrevano costosi e sofisticati laboratori ai quali pochi facevano ricorso. I primi mossi a colore di Ernst Haas negli anni ’50 o le contemporanee riprese di strada di Saul Leiter rilanciavano, riformulandolo, il dialogo mai interrotto fra i pittori e i fotografi, fra i quali i ‘coloristi’ sarebbero rimasti tuttavia a lungo una minoranza. Nel 1956 a Budapest De Biasi fotografa in bianco e nero. Sono in bianco e nero le fotografie più famose scattate in Vietnam e negli anni ’60. Molti dei grandi reporter che avevano cominciato a lavorare venti o trenta anni prima non avrebbero mai utilizzato pellicole a colori, da Cartier-Bresson a Kertèsz, da Giacomelli a Eugene Smith. Uno dei pionieri della mia generazione, Antonio Vinciguerra, che non avrebbe mai usato pellicole a colori e il cui unico libro, La bella rabbia, rimane una delle testimonianze più struggenti del ’68 e delle sue propaggini, sosteneva che il colore non può essere una semplice aggiunta.
Con il colore per la fotografia era un po’ come passare dal disegno a matita o a china alla pittura ad olio: era una complicazione, un modo diverso di percepire le forme e i loro rapporti, ma anche un grande arricchimento delle risorse espressive. Con le pellicole in bianco e nero si ‘vedeva’ in bianco e nero, tutti i colori erano variazioni di grigi. La disponibilità del colore e della sua gestione resa possibile dalle camere digitali e dai programmi di postproduzione offriva ai fotografi la praticabilità di un nuovo inizio, un modo nuovo di vedere, di selezionare e scegliere cosa inquadrare. Forse l’inerzia dell’ abitudine era per alcuni il principale ancoraggio all’orizzonte anche pratico della fotografia analogica, benché con il nuovo secolo cominciasse a diventare problematico il reperimento dei materiali. Prima le carte e gli acidi, poi le pellicole in bianco e nero cominciavano a sparire anche nei negozi storici di città come Palermo. Poteva così accadere di trovarsi senza pellicola quando serviva. Quando ad esempio ad Agrigento era scesa una inverosimile nebbia da apocalisse.
Quella mattina, nella enorme nuvola che stava inghiottendo prima il mare e la valle, poi i palazzi di venti piani e i volti delle persone, avevo potuto comprare a volo solo due pellicole a colori, una settantina di scatti.
La nebbia a colori mi sembrava di averla vista soltanto a cinema, in Deserto Rosso di Antonioni, finta, artificiale nei film di Fellini, autentica e misteriosa nelle riprese di Bertolucci, dei fratelli Taviani o di Ermanno Olmi. Non avevo ancora visto le fotografie di Leiter, la pioggia, gli ombrelli, le luci artificiali della metropoli.
Nel mirino per la prima volta quel giorno ‘vedevo’ a colori e osservavo uno spettacolo non meno sorprendente di come lo avrei immaginato se immerso in un lago di variegati grigi. Al contrario: a fine giornata mi sarei accorto che aveva fatto da guida un ombrello rosso, il mio e quello di altri. Tanti ombrelli rossi in un paesaggio familiare e spaesante, dove la rarefatta presenza umana o i fari accesi delle automobili mostravano un fluttuare di macchie cromatiche, a volte di astratte forme colorate, e un vano agitarsi di ombrelli in uno spazio senza direzioni.
Nella grande nebbia dileguavano gli oltraggi urbanistici e le chiese di tufo, l’americanismo dei ‘grattacieli’ e le macerie del centro storico, la grandezza passata e la miseria presente. L’ombrello rosso attraversava una città persa dentro se stessa e dentro una greve e silenziosa nuvola da fine del mondo. Il giorno dopo erano pronti i provini tirati in fretta in un laboratorio, e quelle immagini un po’ sgranate, a volte sfocate, non mi avevano fatto pensare ad altre fotografie, ma a certa pittura postimpressionista alla Seurat, o anche ad alcuni paesaggi londinesi di Monet, ma con un cromatismo distorto, acceso, saturo: non solo il rosso, ma i verdi, i gialli e le loro combinazioni, le variazioni di arancio e di viola. Nell’ impossibilità di verificare la fedeltà della copia all’originale si poteva solo prendere atto della coerenza interna a quel cromatismo e immaginare una stampa che ne assecondasse e valorizzasse il carattere pittorico.
Quei negativi, digitalizzati, erano stati poi stampati su una carta Dürer, che simulava un po’ la grana della tela e che aveva aggiunto una ulteriore alterazione cromatica, esaltando le combinazioni dei colori complementari.
Pochi anni dopo fotografare con una camera digitale nella nebbia di Sartirana fra Alessandria e Pavia, nella bassa Padana, o sotto casa mia era stato molto meno complicato, verificando peraltro subito la ‘fedeltà’ delle riprese, l’assenza perfino sgradita di sorprese cromatiche. Ma è stato quel primo incontro avventuroso con il colore nella nebbia ad avermi subito persuaso del suo potere di attrazione e di quanto il rischio e la difficoltà di un nuovo inizio possa liberare dalla trappola degli automatismi, della ‘facilità’ con cui si ripete un esercizio divenuto troppo familiare.