di Tano Siracusa
“ Le ciliegie nereggiavano sul piatto con lucentezza succosa, i nostri abiti erano freschi e puliti, l’acqua nella boccia smagliava al sole con i colori dell’iride, ed io mi sentivo tanto bene. Che fare? – pensavo – Che colpa ho io se sono felice?’’
E’ una citazione da Guerra e Pace ma sembra un quadro di Renoir: è più o meno questo il commento di un personaggio del romanzo ‘L’orologio’ di Carlo Levi.
Tolstoi come un pittore impressionista, come Renoir: con le sue ombre trasparenti, colorate, la sua luce senza drammi, la felicità di una successione di incanti fra i personaggi e i luoghi della bohème parigina dai primi anni ’60 alla fine degli anni ’70 del XIX secolo. Era questa l’intuizione dello scrittore torinese, che era anche un bravo pittore.
Una ‘felicità’ che non sembra interrompersi neppure nel drammatico biennio 1870 -1871, con la rovinosa guerra franco-prussiana, l’insurrezione della Comune e la sua brutale repressione. Nè sulle tele di Renoir né su quelle dei suoi amici impressionisti quelle vicende drammatiche lasciarono traccia. Neppure la tragica fine di Bazille, di cui era molto amico e che lo aveva ospitato nel suo atelier, incrina in quegli anni l’atmosfera di incantata leggerezza dei dipinti di Renoir. Come d’altra parte il trauma di quel biennio non lascia impronte riconoscibili nella produzione degli altri pittori che nel 1874, in una Parigi ancora segnata dal disastro della Comune, avrebbero organizzato in aperta polemica con il Salon ufficiale la prima mostra degli Impressionisti.
Cinque anni prima, allo scoppio della guerra fra Berlino e Parigi, Renoir era stato l’unico del gruppo, con Bazille e il più giovane Caillebotte, a venire arruolato. Cezanne per evitare l’arruolamento si era rifugiato in un villaggio vicino Marsiglia, a L’Estaque. Pissarro con la famiglia si era rifugiato al Londra. Anche Monet era fuggito a Londra, dove aveva conosciuto Durand-Rouel, il mercante d’arte che avrebbe fatto la loro e la sua fortuna.
Nelle loro biografie la Storia – la guerra, la fine del Secondo Impero, la prima rivoluzione comunista – aveva fatto irrruzione quando avevano quasi tutti almeno trenta anni e una famiglia. La Storia li aveva raggiunti e colpiti: il povero, gentile Bazille non c’era più, Pissarro avrebbe scoperto che molte delle sue tele erano state saccheggiate o distrutte dai militari prussiani, per tutti erano stati anni difficili, complicati. Ma a parte il cinquantenne Courbet, già di un’altra generazione, pienamente coinvolto nella Comune del ’71, finito in carcere e poi esule in Sviizzera, i pittori dell’avanguardia parigina avevano disertato l’appuntamento con la Storia.
Niente maiuscole nella loro pittura. L’unica, vistosa, eccezione è soprattutto un omaggio a Goya, L’esecuzione dell’Imperatore Massimiliano del Messico di Manet, che comunque non avrebbe mai esposto con gli impressionisti e che avrebbe dipinto alla loro maniera solo dopo averli conosciuti, frequentati e alla fine sostenuti. Bastavano il fiume, i giardini, i teatri, i caffè, il mondo delle sartine e delle modelle, de La grenouillière, la Montmartre periferica di quegli anni; e quella luce, quella voglia di presente, di attimi di felicità senza colpa e pretese, una giovinezza priva di eroismi che li convinceva a tenere duro, a condurre esistenze precarie, a subire in povertà gli oltraggi della critica benpensante e le irrisioni del pubblico.
Al Carlo Levi scrittore probabilmente interessava soprattutto quella sua idea, in effetti paradossale, di Tolstoi ‘impressionista’. Di Tolstoi come Renoir.
Eppure la diserzione dalla Storia, dalle sue guerre e rivouluzioni, di quel gruppo di pittori che avevano dichiarato guerra al Salon, all’arte accademica, alla tradizione, e che stavano rivoluzionando i canoni dell’arte visiva moderna, rimane ancora oggi un passaggio importante e forse poco pensato.
Pissarro era anarchico, ma non partecipò alla Comune. Monet nel ’78 mise in scena le bandiere della Repubblica con La Rue Montorgueil à Paris. Fête du 30 juin 1878, un tripudio di rossi e di blu, bandiere e folla per una fantasmagoria cromatica, per un’ulteriore rarefarzione dei contorni, per un ulteriore oltraggio alle convenzioni.
Renoir, che si fa fatica a immaginare in divisa e armato, continuerà ad abitare il suo mondo di aerei, vaporosi stupori anche dopo aver cambiato la sua pittura, dopo il viaggio in Italia che porrà fine alla sua lunga stagione impressionista. Ma era il loro rapporto con il tempo collettivo della modernità a sembrare oggi eccentrico, sfocato.
Pisarro, il più impegnato del gruppo, rimase un sensibilissimo paesaggista, Monet alla Gare di Saint Lazare, sotto i nuovi ponti ad Argenteuil, nella nuvova illuminazione notturna della città, registrava i segni di una modernità appagata di sè, priva di conflitti. Cezanne continuava la sua appartata ricerca di una nuova forma fra i paesaggi della Provenza, lontano dal chiasso di Parigi. Il tema delle fratture e dello scontro sociale, di classe, è del tutto assente nei loro dipinti. Sembrano, questi pittori, le ultime anime belle della borghesia, capaci di sottrarsi alla consapevolezza della scissione, e che riescono nelle pieghe di una modernità incombente a trovare delle modeste e incolpevoli felicità: le quotidiane estasi dell’attimo, l’entusiasmo per la lora stessa inafferrabilità.
Non sarebbe più successo. I più giovani che arrivavano o tornavano nella capitale negli anni ’80 si portavano dentro un’inquietudine nuova, un bisogno di evasione, di fuga, di oltrepassamento dell’orizzonte parigino e borghese che esigevano anche una pennellata, un segno pittorico diversi.
Gauguin e Van Gogh porteranno nella pittura una scissione radicale dal presente, non solo dalla sua Storia ma anche dalla sua cronaca: il francese cercherà se stesso nell’alterità dei nativi delle Isole, l’olandese nella luce straripante di Arles aveva già perso la ragione. Le estatiche felicità di alcuni loro dipinti portano già dentro, aperta, la ferita tragica del Novecento.
Osservando oggi le opere di Renoir e dei suoi amici, le ’felicità’ successive, quelle dei pittori delle avanguardie storiche, dei futuristi, di Dada, dei surrealisti, sembrano frutto di una sovreccitazione chimica, artificiale, di una consapevole e programmatica alterazione del presente. Oltre il quale, avrebbe forse detto Renoir, non si può essere senza colpa felici.