di Tano Siracusa
Prima di lasciarmi il professore ha voluto raccontare una storia. Una storia vera. Gli altri erano andati via alla spicciolata subito dopo l’alba. Eravamo rimasti noi due soli davanti il piccolo portone della sua casa, e ormai si vedevano i ciclisti passare sulla strada provinciale, avvolti a tratti negli ultimi vapori umidi della notte.
Forse è stata l’apparizione di quelle biciclette a suscitare il ricordo.
“Uscendo dall’hotel avevo visto Robert arrivare in bicicletta, ha raccontato il professore. Non sembrava molto cambiato, i capelli solo un po’ più grigi sulle tempie, e le due rughe quando rideva che si allungavano profonde dal naso verso gli angoli delle labbra sottili. Era sceso dalla bici e avevamo fatto a piedi fino al bistrot di madame Silvie.
In Rue Saint Pierre quella mattina si passava dal sole all’ombra come si passa dalla tarda primavera all’autunno inoltrato. Avevamo il sole di fronte ancora basso, e grandi nuvole bianche solcavano il cielo come navi alla deriva. Quando coprivano il sole il loro orlo si accendeva sfavillando di filamenti dorati e per qualche secondo si rabbrividiva per il freddo e la meraviglia.
Sembrava che Robert fosse sceso con la sua bicicletta da una di quelle nuvole, svolazzante e leggero come l’omino di Chagall, come nel ritratto a matita che avevo disegnato quando ci eravamo conosciuti qualche anno prima. La sua fidanzata di allora aveva detto che il ritratto gli somigliava e che faceva pensare a un uccello. Con gli occhi come spilli, il naso appuntito, le labbra sottili e sporgenti, sembrava che dovesse spiccare il volo anche da quel disegno e librarsi nell’aria da un momento all’altro, fino a raggiungere adesso una di quelle nuvole che oscuravano a volte per pochi secondi, come per un lento battere di palpebre, la città.
Robert parlava del tempo, ma non di quello atmosferico, ragionava invece del tempo che percepiamo, di come lo ordiniamo diceva, e io per un attimo lo avevo rivisto durante la nostra prima passeggiata, sei anni prima, poco dopo esserci conosciuti alla Galleria di Monique, mentre saltava una decina di gradini scendendo le scale che portavano ai treni del Metro, e nel volo durato qualche secondo aveva agitato le braccia come un corvo.
Entrando nel bistrot avevamo dovuto dilatare le pupille. Attraverso la vetrata la luce entrava smorzandosi in fondo alla piccola sala, sotto due fotografie in bianco e nero incorniciate. Quelle fotografie, aveva detto madame Silvie, sono di Boubat, lui veniva ogni sabato, veniva presto, spesso era il primo il cliente.
Robert con un salto era volato a baciarla e aveva continuato il discorso cominciato in strada anche dopo che ci eravamo seduti e anche dopo che madame aveva ricordato il grande fotografo che si metteva proprio dove stavamo noi, fumava, leggeva i giornali e un po’ anche la corteggiava, ma prendendosi in giro aveva precisato.
Il mio amico aveva solo interrotto il suo ragionamento sul tempo, aveva lasciato che lei ricordasse ancora una volta il prestigioso cliente, e aveva ripreso subito a spiegare che da quando non lavorava i giorni della settimana erano diventati due, uno più lungo, che durava dal lunedì al venerdì e quello più corto che chiamava sabatodomenica. E siccome, spiegava con brio e fervore esagerati, la maggioranza delle persone crede di vivere ogni settimana sette giorni diversi, erano frequenti le incomprensioni e i malintesi, spesso anche i contrattempi.
Quelli che vivono i giorni da lunedì alla domenica come giorni separati sono la risicata maggioranza che lavora più gli studenti, andava spiegando agitando le mani. Per loro ogni giorno della settimana è diverso e separato dagli altri, ciascuno con il suo ritmo particolare, con i minimi eventi che vi accadono e li mantengono distinti. Noi apparteniamo invece alla minoranza comunque numerosa degli sfaccendati, pensionati, disoccupati, artisti, nullafacenti per scelta o necessità, a volte per una vera vocazione, e percepiamo diversamente la pulsazione, il respiro, il passo della città che riempie la giornata di accadimenti minimi, tutti mescolati e confusi in unico lungo giorno uguale da lunedì a venerdì, durante il quale si avvicendano notti buie, agitate, quasi sempre senza sogni. Poi arriva per noi il sabatodomenica, completamente diverso dal lunedìvenerdì.
Ti svegli e tutto è all’improvviso cambiato, diceva Robert adesso accavallando di continuo le gambe e guardandosi attorno un po’ allarmato. Le strade sono vuote, diceva, e sai che più tardi, se sarà una bella giornata di sole, andranno tutti fuori a passeggiare, a riempire i caffè e i viali alberati, e allora quelli come me, come noi, capiscono che è finito il primo lungo giorno, che per gli altri è di nuovo il giorno della vacanza, delle mattinate vuote e dei pomeriggi affollati dalla moltitudine di sfaccendati che si annoiano, si ubriacano, schiamazzano, intasano di automobili le vie del centro e poi di notte sbandano sui marciapiedi, a volte si prendono a coltellate, e perciò bisogna andarsene, decentrarsi, allontanarsi subito, volare. Perchè il sabato non lavora quasi nessuno, è ormai diventato una quasi vacanza. Madame Silvie si era intanto avvicinata al nostro tavolo e si era seduta accendendo una sigaretta, sembrava interessata. Robert aveva proseguito rivolgendosi a lei, facendo saltellare adesso lo sguardo sulle piccole rughe sotto il trucco leggero, sulla fronte alta, severa, su quel sorriso indulgente o forse ironico, sui grandi occhi chiari di lei che lo scrutavano.
Cercava di spiegarle che non riusciva più a incontrarsi con sua moglie. Domani, le aveva detto prima di uscire, ci vediamo domani, ed era un sabatodomenica, domani per lui era lunedì, mentre per sua moglie era sabato, una giornata semilavorativa, e la domenica per lei sarebbe stata domani.
Da allora si erano persi perchè sua moglie era nel frattempo partita, con quel suo maledetto lavoro che la spediva all’improvviso cinque giorni a Beirut, tre a Saigon, due a Baghdad, e poi rientrava per una paio di giorni a casa in attesa che la spedissero in qualche altro inferno di guerre e disastri sparsi per il pianeta, e siccome rimanere in città da solo lo deprimeva (lo esponeva anche a crisi di panico, aveva aggiunto fissando finalmente gli occhi su quelli ormai trasognati di madame Silvie), aveva perciò deciso di venire a Parigi per un paio di giorni, che per sua moglie però erano probabilmente settimane. Era venuto qui perchè aveva voglia di rivedermi, ma soprattutto perchè ricordava che lei doveva recarsi a Parigi per intervistare qualcuno, e così girava in bicicletta per la città sperando di incontrarla.
Poi il profilo di madame Silvie si era improvvisamente illuminato per il ritorno del sole sulla città.
Allora, come fosse stato un segnale, un richiamo, Robert aveva smesso di parlare, finalmente aveva interrotto il suo monologo che adesso sembrava un gomitolo interamente dipanato, e aveva guardato verso la strada, verso la vampata di luce nebbiosa che filtrava dalla vetrata; poi, come certi uccelli ammaestrati che lasciano il trespolo, saltellano sulle lunghe gambe per la stanza e poi spiccano il volo attraversando la finestra aperta, Robert si era alzato, aveva piegato più volte le ginocchia e aveva abbandonato in un frullare di braccia il bistrot saltando sulla bicicletta, scomparendo di nuovo nella città alla ricerca di sua moglie, forse salendo e scendendo sulla sua bicicletta dalle nuvole per riconoscerla dall’alto, nella folla. Non ho mai saputo se e quando l’abbia trovata.
Era il 1969, e non esisteva internet, ha concluso il professore, non esistevano I cellulari, ed era più facile perdersi.”
Ormai il sole era apparso sopra le chiome degli eucaliptus, e per il professore quella è l’ora di rientrare a casa. Mi ha raccomandato di stare attento ai cani randagi e di vestirmi in modo meno trasandat