di Vito Bianco
Resterà aperta fino al 29 settembre, al Palazzo Reale di Milano, la mostra che senza timore di esagerare può essere archiviata come l’evento espositivo dell’anno ancora in corso. Sto parlando di Georges de La Tour. L’Europa della luce , la prima retrospettiva dedicata al pittore francese più talentuoso e misterioso del diciassettesimo secolo,l’artista lorenese nato a Vic sur Seille nel 1593 e morto nel 1652 a causa di un’epidemia che si portò via anche un servitore e la moglie, di poche ma perfette opere che già al tempo della filologica riscoperta di Caravaggio aveva suscitato l’entusiasmo di Roberto Longhi, non certo noto per le facili o immeditate adesioni critiche, che in un articolo del ’35 parla di “caravaggismo ugonotto”, per dire della sobrietà tipica di un carattere maturato nel severo clima del protestantesimo francese. E infatti La Tour è citato nei manuali di storia dell’arte tra la folta schiera dei cosiddetti “caravaggeschi”, i convinti continuatori del nostro artista sulla strada di un realismo crudo e drammatizzato, un’etichetta senz’altro utile a una prima approssimazione critica ma decisamente inefficace quando viene il momento di passare dal generale al particolare, dai caratteri comuni di un gruppo di seguaci al tratto stilistico di un singolo artista, specialmente quando l’artista si chiama Georges de La Tour, o Frans Hals, presente abbuiate sale di Palazzo Reale insieme a nomi meno noti (Gerritt van Honthorst, Paulus Bor, Trophime Bigot e altri) a proporre un confronto emozionante e istruttivo che subito testimonia l’alta qualità degli artisti che da quelle latitudini rileggevano con accenti personali ed evidenza di risultati la cruciale lezione (e rivoluzione) naturalistica dell’inquieto, insofferente Michelangelo Merisi. Forte contrasto luministico, quindi, in questo seducente, insinuante pittore, capace di incantare con un tocco, una sfumatura, un dettaglio, una piega, un gesto; e sì, certo, sguardo attento rivolto alle cose così come si manifestano, al “vero naturale”, per dirla con una formula in uso allora, e volontà di liberarsi di schemi stabiliti e convenzioni radicate e di certe, ormai ripetitive, esibizioni virtuosistiche ancora sfoggiate dalle ultime onde del manierismo, contro cui Merisi, a cavallo dei due secoli, reagiva sulla scorta dei conterranei lombardi che lo avevano preceduto sul non agevole sentiero che menava al reale. Ma nell’appartato maestro d’oltralpe, sul quale non molte sono le notizie sicure, la forza del lombardo pare stemperarsi in meditazione, l’impeto in morbidezza, setosità , l’incisione evidente del segno in una concentrazione cromatica di rara, se non unica, bellezza. Mi si affaccia alla mente l’aggettivo “femmineo”, e lo lascerei da solo senza ulteriore commenti se non capissi che può trarre in inganno chi non ha ancora visto e forse non vedrà le quindici opere delle mostra milanese. Diciamo allora “femminile”, nel giusto senso, credo, di delicatezza della mano che conosce istintivamente il peso di un tocco, la misura di una pennellata; e nel senso, aggiungo, di occhi allenati al confronto tra le cose, esercitati a discernere con stupefacente precisione le diminuenti o crescenti gradazioni di colore-chiarore: sulla delicata mano rovesciata di uno dei Giocatori di dadi, miracoloso per composizione e animazione dei personaggi in scena, con il metallo dei corpetti che il riflesso assottiglia e infiamma; sul legno della povera croce che serve da bastone al san Filippo del quadro che lo ritrae; o sul profilo della giovane Maria rischiarato dal lume caldo della candela che lei stessa tiene in una mano nell’intimo L’educazione della Vergine , oppure su quello più adulto della Maddalena penitente , anch’esso fiocamente illuminato dalla debole fiamma di una candela. È nell’equilibrio di potenza e meditazione, di abbagliante visibilità e inspiegabile ma percepibile ritrosia, o pudore, che va cercato il segreto, ovviamente introvabile, di una pittura tanto concreta quanto metafisica, tanto votata alla rivelazione quanto rivolta a un altrove lontano e pacificante: uno spazio soprannaturale situato tra occhio e mente, mondo e cielo, lo spirito e le sue umili, terrene manifestazioni.