di Vito Bianco
Stefano Rubio, l’avvocato dell’alunno del Liceo di Abbiategrasso che il 29 maggio scorso ha ferito con un coltello la sua insegnante di lettere, ha definito “un po’ pilatesca” la decisione del collegio di istituto di bocciare ed espellere lo studente. L’avvocato forse non sa o non immagina quanta verità generale e sostanziale ci sia in questo suo commento che da molti, se non da tutti verrà considerato un espediente difensivo che ha l’obiettivo di salvare il percorso di istruzione del ragazzo. Rubio tocca infatti il fondo oscuro di una questione che nessuno vuole affrontare con la necessaria radicalità, che a ogni occasione viene sostituita da un repertorio sconsolante e ipocrita di luoghi comuni che lasciano tutto come prima e come sempre, e ciò anche quando le intenzioni sono buone o persino ottime, come nel caso di specialisti del calibro di Ammaniti o Recalcati, che è tornato a ragionare di malinconia e neolibertinismo e legge del godimento, nuove e insidiose inclinazioni giovanili, chiari sintomi di un disagio allarmante e potenzialmente esplosivo.
La questione rimossa – o semplicemente trascurata – è quella del modello scolastico, imperniato sulla prova, la valutazione, la misurazione delle capacità, l’esame, la reattività nozionistica, in breve il criterio unico di giudizio che mortifica e inibisce la varietà individuale degli approcci alla conoscenza. Questo modello sembrerebbe essere la proiezione quasi perfetta del modello che domina nella società, ma a ben vedere è il contrario: è la scuola performativa a costituire lo stampo, l’archetipo antropologico e culturale della società della competizione e del lavoro precario e sottopagato, che ne assimila e riproduce -raffinandoli e trasformandoli in parole d’ordine da introiettare e necessità alle quali piegarsi – i meccanismi, la forma mentale, il sottofondo psicologico senza i quali un paradigma pedagogico ed esistenziale perde forza coercitiva e decade.
Bene ha fatto quindi il consiglio a bocciare ed espellere: non poteva fare altro. Non poteva certo bocciare ed espellere se stessa. Non poteva certo cogliere l’occasione per interrogarsi, interrogarsi sul serio (e con il consiglio, il mondo della scuola, e quanti su di essa sarebbero in grado di proporre riflessioni non scontate) sul vero significato di un atto così estremo, violento, così apparentemente assurdo; chiedersi davvero, con franchezza e senza riflessi di autoprotezione, come sia stato possibile il gesto traumatico di un adolescente che aggredisce con un coltello la sua insegnante.
Era ed è molto più facile e rassicurante chiedersi come abbia fatto a portare in classe l’arma impropria, o riciclare vecchi discorsi in lode della scuola del tempo che fu, dimenticando, o facendo finta, quanto brutta e autoritaria fosse quella scuola; più facile e tranquillizzante restare alla superficie, condannare, disapprovare, auspicare una maggiore umanità e comprensione, sperare nella buona volontà dei tanti docenti innovativi e intelligenti, scordando che anche i più preparati, appassionati e mentalmente liberi poco possono contro un modello tanto duttile quanto ferreo: duttile nell’accettazione delle poche isole di felice invenzione didattica, ma ferreo, determinato nella rigida perpetuazione dei suoi indiscutibili principi, a tal punto indiscutibili che persino questi insegnanti illuminati e colti sono convinti che la scuola si possa, con impegno e pazienza, migliorare; che sia, come si suol dire, “riformabile”.
Sublime astuzia, quest’ultima, e straordinaria prova della contagiosa pervasività di un modello sul suo terreno imbattibile e che di sicuro supererà agevolmente la prova dei secoli.