di Vito Bianco

La scrittura breve che gioca le sue carte nel giro di poche fulminanti righe è un’arte speciale, quasi una disciplina zen. E infatti somiglia a quel tiro con l’arco di cui qualche anno fa ci raccontò Eugen Herrigel in un aureo libretto edito da Adelphi. Anche nel caso della microfinzione si tratta di colpire un bersaglio, che non si mai dove sia e che il lettore scopre solo alla fine, quando la freccia ha finito la sua corsa e la corda non ha ancora smesso di vibrare. Alfonso Lentini, siciliano trapiantato a Belluno da quarant’anni, poeta, prosatore, pittore, di quest’arte è un raffinato e originale interprete. Noi siamo i lupopesci (pièdimosca edizioni), il suo ultimo libro, è un’occasione preziosa per scoprire (o riscoprire) la sua inesauribile capacità di creare mondi alternativi e improbabili che, imprevedibilmente, talvolta somigliano al nostro, alle sue bizzarre, ragionevoli follie. Ma chi sono i lupopesci? Di sé dicono che “sbagliando strada, non siamo mai riusciti ad arrivare agli appuntamenti”, e che, non essendo mai nati, “non siamo mai morti”. Perciò per esistere hanno bisogno dell’aiuto del lettore: “E tu che ci leggi e senti il nostro cocciuto batticuore puoi ancora farci esistere, se ci percepisci sia pure per qualche minuto”.

Vorrei cominciare chiedendoti quando è nata la tua passione per la microfinzione e se per caso non c’entri anche un po’ la pigrizia o il desiderio di vedere subito il prodotto finito, per così dire.

Almeno nel mio caso non credo che la scrittura breve abbia a che fare con pigrizia o impazienza, tantomeno con volontà di semplificazione. Al contrario, penso che lo scrivere breve richieda maggiore elaborazione perché obbliga a concentrare in uno spazio minimo contenuti complessi. È una modalità che ho potuto affinare nel tempo usando come palestra“Il Cucchiaio nell’Orecchio”,quotidiano di scrittura online fondato da Francesco Gambaro, al quale collaboro costantemente fin dal 2017, ma pressoché da sempre la mia idea di scrittura tende in generale alla frammentarietà se non all’incompiutezza, perché sono convinto che i racconti organici e conclusi (per capirci: i romanzi che vanno inesorabilmente ed eternamente di moda nell’editoria di consumo) possano essere una mistificazione se pretendono di raccontare compiutamente “le cose come stanno”. Il punto di vista parziale o sbilanciato mi sembra invece una modalità più onesta, meno pretenziosa.


Che rapporto c’è, se c’è, tra la tua attività di critico militante e la scrittura breve che pratichi da molti anni? O, in altri termini: i tuoi interessi di lettore critico sono influenzati dalla predilezione per il microracconto?

Per la verità mi riconosco poco nella definizione di “critico militante” perché, specialmente negli ultimi anni, scrivo di libri solo sporadicamente e senza un progetto preciso. Fare il critico (e per giunta “militante”) è tutt’altra cosa. Mi considero semmai un lettore onnivoro e curioso, forse anche un po’ capriccioso. Poi non sempre quello che leggo (e apprezzo) coincide con la mia maniera di intendere la scrittura. Ma naturalmente la mia ricerca espressiva nasce anche da “modelli” in cui come lettore mi sono riconosciuto e rispecchiato. Penso alla sperimentazione espressiva degli anni sessanta/settanta; oppure, citando a caso, ad autori tra loro diversissimi come Ripellino, Savinio, Pizzuto, Buzzati, Gaetano Testa, Balestrini, Wilcock, Sanguineti… E ancora, spostando lo sguardo fuori dall’Italia, oltre all’imprescindibile Borges, penso a Jarry, Cortázar, Monterroso, Olgoso, Charms, Philip Dick. La brevità in sé infatti conta sino a un certo punto. Ma, visto che la scrittura è (anche) un gioco di specchi, un lettore attento potrà trovare in “Noi siamo i lupopesci” riferimenti ben mimetizzati che vanno da Dante a Charms paássando per Leopardi, Buzzati, Malerba, Montale, Cortázar ecc. Detto questo, aggiungo che la mia ricerca espressiva, pur se influenzata dal rapporto con la lettura (anzi con “le” letture), nasce però da spinte di tutt’altro genere: da qualcosa che ha a che fare con pulsioni fisiche come il respiro, la circolazione sanguigna, il guardarsi intorno con occhi disposti alla meraviglia, l’assecondare gli scatti di rabbia, le angosce, ma a volte anche la voglia di ridere di fronte all’assurdo delle cose. E naturalmente (forse soprattutto) nasce dal bisogno istintivo di lavorare con la lingua un po’ come un pittore lavora con il colore, cioè impiegandola come una pasta spalmabile e usandola a volte per il suo valore in sé prima ancora che per ciò a cui può rimandare. Forse è anche per questo che mi piace praticare le arti visive in parallelo alla scrittura e abbandonarmi ai deragliamenti dei colori e delle forme.


Il rovesciamento sistematico della logica binaria e del senso comune è un principio creativo dal quale mai, o quasi mai, deroghi. Metti nel conto la possibilità di perlustrare un territorio più ordinario o verosimile, due termini che qui uso per evitare la parola realismo?

Mah, forse in sostanza si tratta di una falsa alternativa. Certe pagine di questo libro sono impregnate di cose molto concrete. Vi si possono trovare riferimenti geografici ben precisi, o cenni non casuali a eventi drammatici come la tragedia del Vajont, riferimenti alla contemporaneità come l’assurdità della guerra o il problema degli sbarchi o lo scolorimento della politica, tanto per fare qualche esempio. Il punto è come tutto questo sia poi elaborato. “Noi siamo i lupopesci” rifiuta qualsiasi chiave interpretativa del reale(anzi forse rifiuta persino l’idea che esista un reale esterno alla scrittura) e parte dal presupposto che pretendere di spiegare, fornire ricette, rappresentare fedelmente, possono essere forme di mistificazione. Di conseguenza, come dici giustamente, questo libro privilegia “il rovesciamento sistematico della logica binaria”. “Se non ti resta niente da dire, scrivi”, si legge a un certo punto nel libro. È una frase provocatoria che però non va intesa come un invito al disimpegno, semmai come un invito a uscire dalla scrittura convenzionale per sollevare dubbi, stravolgere, disorientare.
Forse, senza rendercene conto, viviamo in una colossale fake news cosmica. Mettere in discussione il corpo molle di quella che chiamiamo realtà ci può spingere ad attivare il senso critico e a interrogarci su cosa sia o non sia reale, partendo dall’idea che per chi scrive, la cosa più reale e veramente concreta è la scrittura stessa. Forse per questo la scrittura irregolare è tra i pochi spazi, direi quasi “anfratti “, dove oggi è ancora possibile esercitare una qualche forma di rivolta.

Però dobbiamo presupporre che la realtà esista, perché sennò non esisterebbe nemmeno la scrittura, la quale altro non è che uno degli innumerevoli elementi di quello che chiamiamo mondo reale, al quale la scrittura letteraria reagisce nei modi più diversi, persino, appunto, negandola: un paradosso piuttosto seducente…

Certamente. Infatti, come si vede anche da questo libro, sono attratto dai paradossi.

Borges diceva che la metafisica (e la teologia) è una branca della letteratura fantastica. Se è cosi, se ha ragione il vecchio Jorge Luis, allora dovremmo poter dire che, specularmente, la letteratura fantastica, compresa la tua, è un contributo alla speculazione metafisica. Sei d’accordo? E ancora: è capitato anche a te di leggere Cartesio o Spinoza come autori di letteratura fantastica?

Da laico, leggo spesso la Bibbia e altri testi cosiddetti religiosi e vi trovo spunti fiabeschi e situazioni surreali, ma leggo anche Platone, i neoplatonici o i mistici medievali con la stessa “sospensione dell’incredulità” con la quale da ragazzo leggevo i fumetti di Superman e mi tuffavo in un mondo inventato. Il pensiero filosofico, specialmente quello più eretico o estremo, mette in moto una danza delle idee che ha in sé una grande forza visionaria. Ad esempio, come i filosofi dell’idealismo mi piacerebbe credere (ma non so se ci credo veramente) che siamo gli abitanti di un sogno, il sogno di un Dio che ci fa esistere solo percependoci. Idee simili sono peraltro evocate nel testo che apre il volume (e da cui il volume prende il titolo). I “lupopesci” di cui si parla in questo microracconto iniziale sono infatti esseri immaginari che la notte guizzano in un lago, ma paradossalmente sembrano consapevoli della loro “non esistenza” e si rivolgono al lettore chiedendogli di farli esistere semplicemente “percependoli” con la sua fantasia “anche solo per qualche minuto”. È evidente il richiamo al famoso “esse est percipi” di Berkeley: esistiamo se siamo percepiti da qualcuno. Ma questo libro non ha pretese filosofiche, vuole semplicemente mettere in evidenza la forza evocativa della scrittura chiedendo al lettore di partecipare attivamente al gioco.
Che poi scritture come la mia possano essere addirittura un contributo alla speculazione metafisica, proprio non saprei dire.


Come lavori? Da dove ti arrivano gli spunti che trasformi nelle dieci righe immodificabili?

Scrivo per il piacere o per il bisogno di farlo, e scrivo nelle modalità più diverse avendo come unico criterio la massima libertà espressiva. In questo mi sento anarchico. Gli spunti arrivano forse da un colpo di vento. A volte basta che nella mia mente compaia una parola (Lexotan, ossigeno, tigre…) o un’immagine casuale e intorno a quel nucleo iniziale germoglia quasi involontariamente qualcosa. Il lavoro poi consiste nel curvare pericolosamente, deformare, stravolgere. Qualche volta mi capita di partire anche da dati molto concreti. Faccio un esempio: la prima parte del libro (intitolata “Scale”) è composta di microracconti dove si parla di una bizzarra famiglia i cui componenti sono tutti ossessionati (assurdamente o forse anche drammaticamente) dall’idea del salire, del tendere verso l’alto. Sono testi paradossali, spiazzanti, a volte onirici, dove sono disseminate le più diverse connessioni metaforiche. Ma l’idea di partenza nasce da uno spunto molto concreto, direi “paesaggistico”, perché io, pur essendo siciliano di origine, abito a Belluno, cioè in un territorio circondato dalle sontuose Dolomiti e frequento persone che amano la montagna sino al punto da fare dello scalare quasi una ragione di vita. Anch’io, pure se non faccio roccia, sono affascinato dalla montagna e dal suo tacito invito a tendere verso l’alto. Così mi sono inventata questa suite di personaggi che declinano l’idea del salire nelle più imprevedibili modalità, “oggettualizzando” la metafora e aprendola, fra senso e nonsenso, alle più diverse chiavi di lettura.

E per finire: cosa non può mancare in una microfinzione degna di questo nome?

Cosa non può mancare? Ti rispondo capovolgendo la domanda. C’è una cosa che in questi micro-scritti deve assolutamente mancare: non ci deve essere quello che di solito caratterizza la scrittura tradizionale, cioè l’idea che, come in certi film, il racconto sia “tratto da una storia vera” e che basti questo perché assuma senso e valore.

Alfonso Lentini

Mio figlio

Mio figlio abita nei pianerottoli fra una scala e l’altra. Sale e scende scale senza mai fermarsi. Ogni tanto esce da un condominio ed entra in un altro per abitare pianerottoli sempre nuovi. Non sta mai fermo. Sempre su e giù. Il suo divertimento è salire e scendere scale.
Se per caso si imbatte in una donna delle pulizie o in un elettricista non li saluta neanche. Scappa via a occhi bassi guardandosi la punta di quei pieditamburellanti e cerca riparo nelle cassette dei contatori. Siamo a Palermo, non piove da almeno tre anni. Per dissetarsi, mio figlio beve polvere.

Partenza

Prendendo posto in un treno, un nano di mente si trovò in mezzo a una folla di altri nani di mente. Dove va questo treno? chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare. Tutti si affrettarono a rispondere cortesemente, quasi in coro, ma ogni risposta era diversa. Il nano di mente rimase perplesso. Tuttavia, essendo ormai salito, non ebbe il coraggio di scendere e prese posto insieme a tutti gli altri.

Appena il treno partì e cominciò a scivolare leggero sui binari verso qualcosa di molto simile al nulla, fu assalito da terribili fitte allo stomaco. Serrò gli occhi e si mise le mani ai capelli. In un lampo ebbe cognizione del dolore che si irradia sul mondo.

Dentro un cratere

Sfrecciando sulla sua astromobile a pedali super ecologica, un nano di mente cercava di parlare al cellulare con la sua undicesima amante, ma non ci riusciva. Non riesco a sentirti, le diceva pedalando. Qui dove mi trovo, al centro di questo cratere commerciale, non c’è campo. Solo sabbia e denaro. Non c’è scampo.

Vestiti

Sotto il vestito di Annavenanzia c’è un altro vestito. Lei conserva i vestiti così. Non li ripone mai nell’armadio. E non sia mai lasciarli appesi all’attaccapanni o abbandonarli sul letto. Li indossa uno sull’altro, se li tiene stretti addosso, come se fossero figli da proteggere o passerotti da custodire. Ci fu un tempo in cui tutte le anime erano riunite nell’anima di Adamo. Così accade ai vestiti di Annavenanzia.

Luci

Luci e rane. Luci e forchette. Luci e Antonio. Luci e noci. Luci e calze. Luci e zolfo. Luci e armadi. Luci e rabarbaro. Luci e fucili. Luci e mosche. Luci e tequila. Luci e mutande. Luci e betulle. Luci e Michele.

Sbarchi

Nuvole di metallo, d’inverno, sopra il mare di Lampedusa rigirano nei loro ingranaggi i misteri del nuoto sincronizzato. A nuoto, dal Nordafrica sta arrivando la Fenomenologia dello Spirito. La pelle a fisarmonica di un vecchio sbronzo a Parigi risuona nel sottosuono. Nel sottovento di Londra nessuno fiata. Nei sottoluce di Venezia balenano corde verticalissime. A nuoto, dall’Asia Minore sta arrivando la Critica della Ragion Pura. Da Citera, al centro dell’Egeo, prende il largo l’EthicaMore Geometrico Demonstrata.

Battaglia grande

Piantando dita crescono matite. Piantando piedi crescono ventagli. Piantando occhi crescono capelli. Piantando vino crescono castelli. Perciò non ci fu verso e Annagemma non ebbe scampo. Piantò un coltello e crebbe il monte Piana, irto di scheletri e trincee, dove per molti e molti millenni imperversò Battaglia Grande della Guerra Grande, la Rissa più citrulla e miserevole del mondo.

Alfonso Lentini, “Noi siamo i lupopesci” (collana glossa diretta da Carlo Sperduti, edizioni pièdimosca, 2023)

Di Bac Bac