di Tano Siracusa
Fra gli innumerevoli miracoli attribuiti al San Calò, uno avrebbe forse meritato maggiore attenzione da parte delle autorità che domenica ne hanno blindato il fercolo. E cioè che in passato, nella baraonda e nel tumulto della processione, non si è mai verificato un incidente serio. A volte qualche rissa fra i portatori, qualche scazzottatta, ma l’ ambulanza interveniva solo per soccorrere le vittime abbattute dal caldo torrido.
Lungo il percorso dai balconi volavano bottiglie di acqua e birra, e tanti pani; nella generale esultanza, fra sbandamenti e urti, qualche pane colpiva una testa, saettavano imprecazioni e sguardi come coltelli, però mai una lite che non venisse subito sedata. Potrebbe sembrare un miracolo, certo difficile da spiegare, ma istruttivo.
Si dirà che le autorità, civili e religiose, non credono nei miracoli. E quasi certamente è giusto così.
Le autorità, le istituzioni, esistono affinché i miracoli, i loro strappi, l’improvvisa irruzione di nuovi codici, regole, simboli, rituali ispirati dall’irrazionalità di una fede altra, non accadano. Le autorità religiose e civili hanno il monopolio delle regole e stabiliscono la Regola fondamentale, quella che sancisce l’inamissibilità delle eccezioni. Figuriamoci dei miracoli. E’ l’ Autorità a istituire l’abnormità, l’irregolarità di qualunque fede che non sia quella nella Regola.
Attorno al simulacro di un Santo migliaia di individui diventano un popolo che per un giorno attraversa la città come se non ci fossero più padroni. Inventano un complesso rituale elaborato e tramandato nel passaggio delle generazioni, usando gli ingredienti ovunque sperimentati per rompere l’involucro delle evidenze date e previste. Cioè la musica – trascinante e tellurica quella dei tamburi – l’eccesso cinetico, l’alcol ( o, in altri contesti culturali, altre sostanze psicoattive); e la fede nel miracolo, nella festa, nell’abbondanza, nel cielo che per un giorno si curva sul Santo che ondeggia e sbanda sulla folla, il Santo miracoloso che bisogna abbracciare, baciare, ringraziare, pregare.
La sterilzzazione delle tradizioni, la loro cancellazione è un impoverimento, la premessa dell’uniformità della Regola. E tuttavia la Regola non è universale, cambia nel tempo e nello spazio come le istituzioni che la impongono, e neppure è sempre granitica. A volte è porosa, lascia assorbire e nasconde nelle sue pieghe umori e grumi di istanze estranee, provenienti da credenze e pratiche apparentemente sregolate.
C’è un paesino vicino San Cristobal, in Chiapas, con una chiesetta dove in attesa delle normali funzioni religiose i fedeli praticano dei loro antichi rituali. Il pavimento della chiesa è ricoperto da sempreverdi. Su quel tappeto vegetale vengono accese centinaia di piccole candele a illuminare i santi affrescati alle pareti e piccoli assembramenti di persone che mangiano e bevono bibite gasate. E celebrano i loro rituali. Una donna con qualche bambino attorno, dopo avere concluso una lunga preghiera in una delle tante lingue indigene della regione, estrae una gallina da una cesta, ne accosta il capo alle fiammelle delle candele e poi le tira il collo.
Qualche giorno dopo in quella chiesetta una giovane guida terrà una specie di lezione storico-teologica in uno spagnolo molto colto a un gruppo di turisti. Spiegherà il senso e la ricchezza di quei rituali che la chiesa cattolica aveva accolto in una delle sue tante pieghe.
Certo, anche le tradizioni passano, tramontano, spesso si trasformano fino smarrire lo spirito e il senso che le avevano originate, e diventano altro, folklore da festival, da consumare. Ma passano anche le autorità e le regole, di solito più in fretta.
Rimane la Regola, con le sue tante, possibili pieghe, nelle quali custodire l’imperdibile sregolatezza del passato.