di Giacomo La Russa
Riprendo un testo di Giandomenico Vivacqua nel quale viene lucidamente posta la distanza da sempre storicamente esistita tra il popolo di san Calogero («la densità plebea, ruvida e carnale») e il resto della società agrigentina (le élites borghesi, le autorità ecclesiastiche, le stesse autorità amministrative). Non c’è dubbio alcuno: la festa del santo nero è sempre stata una sorta di spazio autonomo, di territorio creativo, di momento nel quale, riappropriandosi dell’intera città, le classi popolari potessero finalmente esprimere il loro sentimento religioso (le promesse, i voti, l’andare scalzi, ecc…), la loro passione paganeggiante e un po’ esibizionistica (il saltare addosso al santo, il baciarlo, il pulirlo, le musiche e i motivi inneggianti,ecc..), il loro desiderio di fraternità e di comunione (il lancio del pane, il mangiare insieme, l’offerta ai portatori di cibo e di alcol, lo stesso soffrire sotto la vara, ecc…). Ebbene, oggi, l’insieme di questo mondo, il senso stesso della festa, sono gravemente minacciati. Due fenomeni, strettamente interconnessi tra loro, ne sono alla radice. Da un lato, la fine della civiltà contadina e lo svuotamento della città araba (i contadini, anima della festa, chiedevano protezione e aiuto, istituendo dunque un fortissimo legame tra la loro esistenza quotidiana, il loro lavoro e il santo nero; quest’ultimo veniva poi portato per vie e quartieri ancora attivi, operosi, vitali). Dall’altro, il ritorno delle autorità ecclesiastiche e civili che, in un’epoca globalizzata quale quella che viviamo, intravisti gli elementi di crisi appena accennati nonché la stessa trasformazione antropologica e professionale dei fedeli e dei portatori, dopo secoli di sostanziale estraneità, muovono finalmente il loro attacco normalizzatore, tentano di prendere il sopravvento, dispongono e indeboliscono la forza straripante della festa (da qui la recente partecipazione di qualche rappresentante della chiesa, la campagna di discredito attorno al lancio del pane, il divieto di salire sul santo e di baciarlo, l’idea addirittura di un cordone di polizia all’uscita del santo, ecc…). Ma c’è, a questo punto, un’altra considerazione da svolgere. Il popolo accetta, i portatori si piegano. Si mormora, ci si lamenta, ci si professa arrabbiati. Ma, alla fine, che si tratti di un semplice auspicio (come nel caso dell’invito a non lanciare il pane) o di un vero e proprio ordine dell’autorità per presunte ragioni di pubblica sicurezza (come nel caso del divieto di salire sul santo), ligi, ossequiosi, rispettosi, i fedeli e i portatori ottemperano, eseguono, ubbidiscono. La festa perde così la sua forza, il suo fascino. Si trasforma in una sorta di processione monotona, piatta, omologata. Dove infatti lo spettacolo dei pani lanciati a pioggia da balconi, aperture e finestrelle? Dove l’assalto arrembante dei fedeli sul fercolo ogni volta che la vara viene deposta per terra (senza che, mai -bisogna aggiungere-, nel corso di questi decenni, si sia avuto notizia di un ferimento o di un incidente)? Non si tratta, insomma, di violare la legge (fermo restando che la recente ordinanza del questore meriterebbe di essere impugnata davanti alla competente autorità). La questione su cui interrogarsi è, in realtà, un’altra: perché non è, infine, prevalso tra i portatori il rifiuto di prendere il santo a queste condizioni? Mere ragioni di opportunità (era troppo tardi quando l’ordine è stato comunicato; i fedeli aspettavano; era già tutto organizzato) possono davvero avere ragione di provvedimenti e auspici che sfregiano una tradizione così antica? E perché, tra i fedeli, non si è levata un’unanime voce di indignazione? E non c’è il rischio, di questo passo, che magari tra qualche anno le stesse ragioni di pubblica sicurezza inducano le autorità civili o religiose a imporre o invitare al trasporto del santo su un camioncino? E siamo sicuri che lo stesso san Calogero sia stato contento di essere portato in giro senza che nessun fedele gli abbia potuto tributare l’abbraccio e il bacio che da secoli gli viene tributato? Non siamo forse di fronte all’ennesimo esempio di «servitù volontaria»? Ed è così peregrino allora il richiamo al rifiuto, all’obiezione, al «preferirei di no» di Bartleby lo scrivano?