di Vito Bianco
Che compito ha, se ne ha uno, la musica? Secondo Quirino Principe, musicologo e germanista, ha il compito di giudicare il proprio tempo. Lo faceva, lo ha fatto la musica “classica” (che lui chiama “forte”: quindi tutte le altre sarebbero deboli…), non lo fa quella contemporanea che per comodità chiamiamo “leggera” o “pop” (Principe elenca a caso Dylan, Vasco Rossi, Duran Duran), che si limiterebbe a esprimerlo. Giudicare la propria epoca è un incarico che persino la filosofia ha preferito non assumersi, che per Hegel doveva invece cogliere in concetti; si fa perciò una gran fatica a immaginare Bach o Mozart mossi da una volontà di giudizio, presumibilmente negativo, piuttosto che da un desiderio di bellezza armonica e strutturale (la musica è “passione della struttura”, ha detto un compositore, e Glenn Gould sottoscriverebbe).
Già riuscire ad esprimerlo adeguatamente è impresa difficile; la cosa più semplice e facile è ignorarlo, o edulcorarlo, diventare la sua innocua colonna sonora, in beata dissonanza sentimentale rispetto al tempo in cui nasce e viene fruita. Per esprimerlo come merita, cioè per dargli manifestazione musicale, occorre sensibilità, talento, capacità d’ascolto, sapendo che l’epoca è varia ed è fatta di luci e ombre, meraviglie e tregende. Il Settecento di Mozart è così, felice e oscuro, sublime e carico di neri presagi beetoveniani. Lo stesso vale per l’enciclopedico Bach, la cui sterminata opera a tuttto mi pare può far pensare tranne che a una serie di ben temperate sentenze (molti umori e sentimenti e illuminazioni di misteriosa sapienza contiene perché possa trovarvi posto anche il giudizio di un “giudice musicale”).
La musica e l’arte in genere hanno già un bel daffare, non hanno mai avuto tempo per per mettersi a giudicare il proprio tempo, a meno che non si voglia considerare giudizio la franchezza talvolta perfino brutale dell’espressione. In questo senso, La terra desolata di Eliot è anche un giudizio di condanna della demenza bellica europea (“in una manciata di polvere vi mostrerò la paura”), così come lo sono Mrs Dalloway di Virginia Woolf e Guernica di Picasso. Ma il bello dell’arte sta nella sua costitutiva ambivalenza. È il luogo del dubbio, del possibile, dell’ipotetico, dell’ignoto. Si pronuncia per litote, per negazione, per correlativi oggettivi. Si maschera; in qualche caso finge di parlare d’altro. Come potrebbe farsi giudizio, sentenza?
Perciò alla poesia, al romanzo, alla pittura dobbiamo continuare a chiederere quello che possono darci e ci hanno dato. E lo stesso alla musica, anche a quella che definiamo “leggera” (Principe la chiamerebbe “debole”), che non sempre – lo sappiamo, e dovrebbe saperlo anche il colto e severo musicologo – è sinonimo di spensierata.