di Tano Siracusa
I numerosi visitatori di Agrigento che hanno in fretta abbandonato la città per il suo stato di degrado, per la disseminazione dei rifiuti, pongono questioni che oltrepassano le responsabilità dell’attuale e delle precedenti Amnistrazioni Comunali e investono la sfera delle relazioni sociali, della percezione di ciò che è ‘mio’ o ’nostro’, da proteggere e valorizzare, e di ciò che non lo è: i beni cosiddetti comuni, materiali e immateriali, che appartengono alla separata, astratta dimensione della statualità, del ‘pubblico’, o a quella non meno distante degli ‘altri’.
Il non riconoscimento dei beni comuni come anche propri, personali, sembra una modalità dello stare con gli altri largamente diffusa nel solo Mezzogiorno d’Italia. È infatti assai meno presente o del tutto assente nel resto del paese e del continente europeo.
E’ come se nel nostro meridione avesse valore soprattutto o esclusivamente la trama delle relazioni personali, quella legata al sangue e quella elettiva, amicale, secondo codici e gerarchie che escludono interferenze o mediazioni dall’esterno, nella diffusa convinzione che lo Stato e gli ‘altri’ siano una minaccia, un fastidio o un’allucinazione. Come se la percezione dell’altro in tanta parte del Mezzogiorno risultasse più che altrove minacciosa, maggiore la diffidenza che suscita e che la ispira, e negate le forme altrove sperimentate di possibile condivisione.
La sfera del ‘mio’ o del ‘nostro’ percepisce il sovraordinato contesto dei beni (e spazi) comuni come ambito impersonale di cui, se è possibile, appropriarsi, o da usare per le proprie esigenze e comodità, per un qualunque personale vantaggio. La netta separazione, nella percezione di molti, fra spazio privato e pubblico, come fra luce e ombra, è la premessa della disseminazione della spazzatura, la cornice ideologica della città come discarica diffusa. Una significativa eccezione nel centro storico di Agrigento sono i cortili e alcune scalinate tenuti puliti dai residenti e spesso abbelliti con piante, spazi vissuti come propri assieme agli altri.
Che Pirandello abbia potuto rappresentare la relazione sociale come inevitabilmente alienante, lo sguardo degli altri come una trappola, è solo una rilevante conferma della pericolosità o dell’ingombro che gli ‘altri’ costituiscono in un orizzonte di senso profondamente siciliano, familiare per lui dall’infanzia. E che continua a permeare le attuali forme di relazione sociale in vaste aree del sud.
Nella sua città natale i beni comuni, a cominciare dal paesaggio, sono stati pesantemente manomessi negli anni del sacco edilizio culminato nella frana del 1966 e nel successivo dilatarsi di Agrigento in una periferia informe. Il costo della stagione del cemento è stato elevato. Il sovradimensionamento dell’offerta abitativa, che ha provocato un abnorme consumo del suolo, ha poi fatto crollare i prezzi nel mercato immobiliare. Il profilo della città è rimasto sfigurato. Interi quartieri del centro storico rimangono abbandonati a un lento disfacimento all’ombra dei palazzoni eretti fino al 1966.
Ma l’esperienza delle controfinalità provocate dal perseguimento di finalità privatistiche non suscita neppure l’esigenza, la domanda, di una alternativa che rinunci a sacrificare all’interesse collettivo il presunto vantaggio personale.
I visitatori lasciano Agrigento, e l’immagine che fissano è quella di una città i cui abitanti utilizzano strade, marciapiedi, le poche piazze, scalinate, gli spazi comuni, i parchi, come una possibile discarica, una città sfigurata dalle brutture edilizie, resa faticosa dal presupposto che non si possa soddisfare il bisogno di mobilità altrimenti che con il personale mezzo privato di trasporto, malgrado i costi e i lenti tempi di percorrenza per le distanze e un traffico sovradimensionato.
Chi viene ad Agrigento per rimanerci qualche giorno deve procurarsi un automobile con cui smarrirsi intasando le viuzze della citta storica, o rassegnarsi a incerte attese di autobus che comunque smettono di circolare col buio della sera.
I numerosi hotel che fino a qualche decennio fa operavano in centro storico sono scomparsi, gli alberghi costruiti a Villaggio Mosè, a una decina di chilometri dal centro, sono privi di un servizio di trasporto pubblico affidabile. D’altra parte l’ estensione territoriale della città ha accresciuto i costi dei servizi essenziali, acqua, trasporti, raccolta e smaltimento dei rifiuti, spesso oggetto di interessi malavitosi. Insomma, attorno al Parco Archeologico, Agrigento offre sopratttutto incuria e disservizi. Non risulta turisticamente attrattiva, da meritare soggiorni prolungati. E ormai la spazzatura ovunque mette in fuga i visitatori.
Così quest’anno le presenze turistiche sono diminuite, più che in altre città siciliane. I ventenni che tornano d’estate dalle sedi universitarie del centro nord, hanno intanto fatto esperienza di mezzi pubblici di trasporto comodi e puntuali, di vaste zone delle città chiuse al traffico, del verde pubblico curato, di luoghi puliti dove la raccolta differenziata e lo smaltimento dei rifiuti funziona. Trascorrono l’estate sulle spiagge familiari, probabilmente si divertono, ma quando tornano nelle sedi universitarie decidono quasi sempre di restarci, o comunque di non ritornare.
Anche solo per queste ragioni la semplice candidatura di Agrigento a città capitale della cultura è stata un azzardo difficilmente comprensibile. Un bluff destinato ormai a essere visto. Se anche le risorse finanziarie per Capitale della cultura 2025 venissero utilizzate in modo efficace e accurato, non basterebbero e non sarebbero comunque finalizzate a superare i deficit strutturali di Agrigento. Una città gravemente impreparata ad accogliere decorosamente i visitatori che si attendono fra due anni.
Nel 2025 Agrigento mostrerà le sue bellezze e inevitabilmente anche le sue magagne e i suoi orrori. C’è molta preoccupazione in giro, e pochissima informazione. Forse farebbe bene il Sindaco, destinato capro espiatorio di un contesto che lo oltrepassa, a convocare una conferenza stampa aperta al pubblico per informare sulla situazione, per confrontarsi e discutere su quello che si può realisticamente fare con le carte che si hanno in mano. Invitando i cittadini, tutti, a riconoscere per una volta nell’interesse comune anche il proprio.