di Tano Siracusa
In Perfect days ogni tanto la cinepresa inquadra dall’alto il piccolo furgone blu che alle prime luci del giorno attraversa la metropoli, le fantasmagoriche strade sopraelevate fra i grattacieli di Tokyo, i mille occhi palpitanti delle finestre.
Nel 1983, Wenders aveva filmato in Tokyo- Ga per quasi due minuti con camera fissa una panoramica sopraelevata della città. Quel documentario era un omaggio a Yasujirō Ozu, il grande cineasta scomparso nel 1963, il poeta del Giappone in bianco e nero. Allora, nei primi anni ’80, Wenders mostrava già una metropoli avviata verso una modernità postanalogica, dai cromatismi acidi, ipertecnologica.
Riprese veloci, di poche settimane, sia adesso che quaranta anni fa.
Anche Perfect days è un omaggio a Ozu, alla cifra minimalista dei suoi film, e il suo protagonista, Hirayana, misterioso antieroe, ha lo stesso nome dei protagonisti di due importanti film del regista giapponese.
In Perfect days Hirayana abita un suo appartato mondo analogico, fotografa gli alberi con la pellicola, senza inquadrare, senza poi alla fine neppure guardare le stampe, e guida il suo furgone blu osservando la città e ascoltando su delle vecchie cassette Lou Reed e altri autori e gruppi rock di quegli anni. La musica presente nel film è solo quella che Hirayana ascolta dentro il furgone, nelle soste e durante il viaggio da casa al primo bagno pubblico, dove lavora come addetto alle pulizie. Le riprese della città si alternano a quelle del suo volto non più giovane, non ancora vecchio.
Meno di dieci minuti di musica nei 123 minuti di un film con pochi e brevi dialoghi perchè il protagonista è un uomo solo, non ha amici, non ha donne e incontra poche persone, quasi sempre le stesse, con cui scambia poche frasi, quasi sempre le stesse. Il sonoro è quello della strada, degli interni, in presa diretta, senza musica a suggerire, commentare, sovrapporsi. Hirayana svolge con scrupoloso impegno il suo umile lavoro, ripetendo in modo pressoché identico le sue giornate, dal suo primo sguardo fiducioso al cielo, ai grandi alberi in alto quando esce da casa, fino alla sera, quando spegne la luce dopo avere letto un libro.
Nelle sue giornate si ripetono gli incontri, tornano le stazioni di un tempo circolare, il negozio dove acquista le pellicole, un piccolo tempio, la lavanderia, un paio di ristoranti, il parco dove va mangiare seduto su una panchina e dove scatta senza inquadrare le sue foto agli alberi, il modesto appartamento dove coltiva con amore delle piccole piante.
È un uomo gentile, paziente, che sopporta le costose stravaganze di un giovane collega, che prende per mano e tranquillizza una bambina che si è perduta, che non se la prende per gli sgarbi subiti. Ma si arrabbia se viene lasciato solo sul lavoro. Soprattutto è un uomo che ha uno sguardo diverso, che osserva la realtà in modo speciale.
Lo sguardo di Hirayana è quello Wenders, e non solo quando quando inquadra in controluce le cime degli alberi, il gioco di ombre e di luce che tornerà durante i suoi sogni in bianco e nero, come nelle fotografie, ma ovunque si posi sulla scena della città. Uno sguardo che spesso si incanta e incanta, che sembra rallentare e sospendere il tempo.
I bagni pubblici di Tokio offrono a Wenders l’occasione per mostrare negli incastri e nei movimenti dei riflessi sulle vetrate il trapasso contemplativo nello sguardo del protagonista; o altrove certi scorci di Tokio stranianti, le apparizioni di un vecchio matto, una ragazza seduta nella panchina accanto che cerca e sfugge il suo sguardo, una stradina dove vanno tutti a piedi e sembra un’altra città, un altro tempo.
Ma anche se incastonato in una metropoli che Wenders riprende con la curiosità del raffinato documentarista, il protagonista del film rimane Hirayana, invaso forse dalla stessa assorta curiosità per il mondo degli uomini dell’angelo che attraversava una ignara Berlino, però con una piena, appagata adesione al presente, all’’adesso’. Anche quando il lago della giornata viene attraversato dalle increspature di incontri imprevisti, una nipotina, uno sconosciuto, un uomo infelice con il quale gioca a calpestarsi le ombre, oppure la sorella, in una visita che lascia immaginare un passato di dolore, una ferita ancora aperta; anche quando Hirayana mostra di conoscere l’ombra più scura, quella che si somma all’altra, alla fine ritorna la consapevolezza che è solo un’ombra, è passato, non è adesso, e ritorna sul suo volto l’espressione di un uomo sereno, appagato. Contento.
Molti i primi piani su un attore, Koji Yakuso, che a Cannes ha vinto il premio come miglior attore protagonista. Nella lunga sequenza finale sta ascoltando la musica, e sul suo volto si alternano tanti volti, che sono poi quelli di ogni uomo, l’alllegria, la commozione, la rabbia, lo sconforto, lo stupore, l’entusiamo e la disperazione e poi di nuovo il volto che lo definisce, che è proprio suo, quello della gratitudine per esistere, per poter continuare a guardare il mondo, quella tramatura di ombre e di luce che è la vita di tutti.
Un nuovo omaggio di Wenders a Ozu, dunque, con la collaborazione nella sceneggiatura di Takuma Takasaki, e un omaggio a Lou Reed, al rock e pop di quegli anni. Nel nomadismo culturale di Wenders, attraversato da un profondo umanesimo, un film particolarmente ispirato, che per i tempi e i silenzi lunghi, per il suo movimento circolare, appare in aperta controtendenza rispetto al cinema che riempie oggi le sale.
Eppure le sale si sono riempite.
Il personaggio di Hirayana sembra aver toccato corde nascoste, dal suono imprevisto. È spiazzante, come può esserlo una sequenza musicale, o appunto i silenzi, i fruscii, il ronzio ovattato della città nel frastuono e nelle dissonanze del mondo contemporaneo.
Probabilmente attrae quel suo vivere nascosto nel grande alveare della metropoli, abitando un mondo estraneo da cui si è lasciato oltrepassare, come se fosse rimasto ai bordi del primo documentario di quaranta anni fa, semplicemente cogliendo fra le pieghe del presente continue, sfuggenti meraviglie. Quello sguardo fiducioso, curioso, ospitale, indulgente e aperto alle improvvise epifanie della luce, ha catturato e sospeso per due ore il tempo del pubblico.
Un pubblico, probabilmente non solo occidentale, frastornato, spaventato da catastrofi incombenti, arrabbiato, sempre meno disposto a dare credito ai principi idioti, convinto che la bellezza sia una favola, l’illusione di un vecchio mondo somparso.
Eppure questo film inattuale, anacronistico, spaesante, riempie le sale.