di Vito Bianco
Si tratta di ricostruire le ultime ore della signora, aveva detto Giudici, dalle dieci di sera a mezzanotte. In quelle due ore dev’essere successo qualcosa che l’ha spinta a prendere una decisione improvvisa, dettata da una forte emozione. Pronunciata quest’ultima parola, aveva preso una matita Stabilo bianca appoggiata di sbieco su un foglio di carta del tutto privo di segni e rivolto lo sguardo su di me, in attesa di ascoltare quello che avevo da dire. Non avevo nulla da dire; ne sapevo quanto lui, o meno di lui, che probabilmente era già in possesso di un indizio, di una traccia o di una testimonianza a partire dalla quale era possibile imboccare il sentiero che lo avrebbe portato a scoprire cosa era accaduto a Eugenia la sera del 15 dicembre, cinque giorni prima di quella convocazione informale (così l’aveva definita il commissario Giudici al telefono) per mettere in chiaro alcuni punti e in tal modo aggirare il rischio concreto e probabile in casi simili di girare a vuoto o, peggio, di seguire la direzione sbagliata, quella che porta al proverbiale vicolo cieco.
Gli avevo risposto che per me non c’erano problemi, che fosse lui a decidere il giorno e l’ora, tutto quello che potevo fare l’avrei fatto, ero a sua completa disposizione, e in ogni caso nello stato d’animo in cui mi trovavo sarei riuscito a combinare poco con il lavoro, e quanto a dormire…Giudici mi aveva interrotto con un colpo di tosse da fumatore incallito, senz’altro temendo uno sfogo interminabile e divagante, disse che capiva e che sapeva per esperienza, per esperienza professionale, chiarì, che i primi giorni sono i più duri, quando di colpo si spalanca il vuoto e si viene colti da una sorta di smarrimento, comprensibile e inevitabile, e anche, certe volte, da un sentimento che potrebbe essere, o avere la caratteristica tonalità di quello che siamo soliti chiamare…senso di colpa. Le ultime parole, “senso di colpa”, le avevo ascoltate senza sentirle, come talvolta ci accade, allo stesso modo in cui non vediamo, pur avendolo sotto gli occhi, il libro o la stilografica regalo di nostro padre che da dieci minuti stiamo nervosamente cercando.
Adesso, seduto dietro la scrivania del suo ufficio, in alto sulla parete alle spalle il ritratto in cornice del Santo Padre con la mitra ricamata, il suo sguardo fermo e insinuante nella sospensione dopo la parola “emozione” detta con particolare lentezza, che aveva probabilmente lo scopo di darle una precisa sfumatura di significato (ma quale?), me le fece riaffiorare alla memoria, me le fece, sarebbe meglio dire, sentire per la prima volta. Era un errore che non aveva voluto correggere per pigrizia o vanità, oppure era il suo modo di farmi sapere che mi sospetteva non del tutto innocente, di comunicarmi che la sua indagine non escludeva niente e nessuno, quindi nemmeno me, e così facendo mettermi in allarme, innervosirmi, sperando in una mossa falsa, per esempio una contraddizione o dimenticanza che rivelasse una coscienza poco tranquilla quando non francamente colpevole? Giudici fece cadere la matita, si chinò a cercarla sotto la scrivania e quando riemerse era visibilmente scomposto, affannato. Si scusò, riprese però a tormentarla e a batterla sul foglio anziché riemetterla nel vasetto portapenne da cui doveva averla tirata fuori.
Ci fu un intervallo durante il quale ognuno di noi pensò a qualcosa di privato, immagino, io alla faccia di Genia che osservava il riflesso del mio volto miope chino nello specchio del bagno mentre si toglieva il trucco dalle palpebre con un batuffolo rotondo di cotone, il commissario probabilmente a una vecchia fiamma di gioventù, talvolta succede di tornare con la memoria a cose del passato proprio quando siamo pienamente immersi nel presente, le immagini arrivano per volontà propria, reclamano attenzione, ci distolgono e ci isolano e per un minuto non siamo più dove siamo.
Rotto l’intervallo, spezzato il silenzio, ripiombati nel presente il commissario volle sapere di che umore fosse la signora nei giorni immediatamente precedenti il fatto, l’improvvisa scomparsa, se avevo notato delle stranezze, una frase insolita, un gesto o un’espressione del volto che non le avevo mai visto, non so riesco a spiegarmi, disse, anche il minimo dettaglio, il più apparentemente trascurabile può rivelarsi, se interpretato correttamente, se fatto parlare utile alle indagini, per cui la invito a fare con calma mente locale; intanto le faccio portare un tè al limone, se per lei va bene. Risposi che il tè andava bene, grazie, se permette mi sgranchisco un po’ le gambe, mi alzai, percorsi i quattro o cinque metri che ci separavano dalla finestra che si affacciava su un viale alberato e appoggiai le mani sul davanzale di cemento freddo su cui una mano anonima aveva inciso delle lettere che formavano la parola “connessione”.
Guardavo dall’alto lo scorrere lento delle auto e un uomo anziano con un cappello e le mani nelle tasche di un loden blu e cercavo di riandare ai giorni che avevano preceduto quel 15 dicembre, ma quel che mi riusciva di rivedere erano frammenti isolati di gesti quotidiani, frasi ordinarie, il repertorio banale delle giornate di una persona che ci sta accanto da tanto tempo e che chissà quando abbiamo smesso di vedere, ma che, proprio perché l’abitudine ce la nasconde può ridiventare una sconosciuta, allontanarsi progressivamente da noi fino a raggiungere quello che gli astrofisici chiamano afelio, o punto afelio, il momento di massima distanza dal sole della terra. La similitudine mi piacque e me la rigirai nella testa anche quando tornai a sedermi nella poltrona posizionata in corrispondenza dell’angolo destro dell’ampia e riflettente scrivania, una poltrona di cuoio nero larga, comoda, accogliente, fatta apposta, sembrava, per indurre l’ospite alla franchezza, alla confessione spontanea, alla resa.
Il tè era caldo, denso, lo sentivo in gola e nell’intestino, avvertivo sulla lingua l’asprezza del limone; quel calore mi diede sonnolenza, voglia di chiudere gli occhi e dormire. Mi riscosse la voce gentile del commissario che voleva conoscere il risultato dell’esplorazione memoriale. Dissi che in quei pochi minuti, e in quella particolare situazione, non mi era riuscito di ricordare nulla di significativo, solo fotogrammi ordinari, di scarso interesse, ma purtroppo, lei lo sa meglio di me, la vita di due persone che convivono da molti anni si inoltra, a partire da un certo momento che però non è possibile identificare con esattezza, in una zona di opacità, di nebbia, possiamo chiamarla così. Questa opacità, questa nebbia, tocca un culmine che con un accostamento forse improprio ma non privo di una qualche suggestione, mi pare, si potrebbe chiare punto afelio: è un un’espressione tratta dal linguaggio scientifico, dalla cosmologia, lei sa già di cosa sto parlando, se la memoria non mi inganna, in un programma televisivo di cui era ospite ha parlato della passione per le letture di argomento scientifico, perciò credo sia inutile spiegarle a quale fenomeno rimandi il termine.
Giudici appoggiò delicatamente la Stabilo sul foglio e mi guardò come se si fosse accorto solo in quel momento della mia presenza nel suo ordinato ufficio. Quindi, se capisco bene, disse con sottolineata lentezza (all’improvviso mi ero tramutato ai suoi occhi in uno straniero a cui vanno scandite le sillabe della lingua che sta imparando) poco fa lei ha riflettuto su questo tema, si è dedicato, diciamo a una riflessione di carattere filosofico, possiamo dire, sul tema della distanza che a un certo punto inevitabilmente si apre tra due persone che da molti, da troppi anni vivono insieme, e devo ammettere che la sua riflessione non è priva di interesse, compresa l’analogia con i moti del nostro vecchio e affaticato pianeta, e confesso che avrei voglia di dare un contributo alla sua meditazione, per quanto modesto, se il dovere di ritrovare la sua signora non me lo impedisse o, meglio, vietasse.
Per tutta la durata del suo discorso accordato all’ironia aveva tenuto gli occhi sulla mia faccia tranne quando, menzionando il pianeta affaticato aveva rivolto una breve occhiata alla finestra. Si concesse una pausa di pochi secondi e ricominciò a parlare più in fretta per dirmi in buona sostanza che non c’era tempo per le piacevoli chiacchiere e che da me si aspettava dati di fatto, osservazioni concrete, azioni compiute o azioni non compiute, se così posso esprimermi, in breve tutto ciò che può aiutarci a scoprire perché sua moglie non è tornata a casa dopo la cena a casa della sua amica, la signora Altamira. Il resto dovremo rimandarlo a dopo, quando avremo fatto luce. Lei vuol fare luce, no? La domanda mi colse alla sprovvista. Certo che volevo, come poteva dubitarne. Lei vuol sapere, sì? dove si trova la signora chiese ancora il commissario, che ora aveva fatto affiorare da sotto i baffi un sorrisetto appuntito, sagace, da uomo navigato, da poliziotto scaltro che oltre alla pluridecennale esperienza sul campo può vantare anche la lettura di un certo numero di romanzi polizieschi.
Certo che voglio, mi stupisce che me lo chieda, gli risposi dopo qualche attimo di smarrimento, non c’è niente che mi interessi di più, sono per me giorni di preoccupazione, di sofferenza, lei può facilmemte immaginare quello che sto passando, se l’abitudine del mestiere, se il distacco che giocoforza ha dovuto imporsi per evitare un eccessivo e controproducente coinvolgimento non l’hanno, cosa che non credo, resa insensibile. No disse brusco Giudici, stia pure tranquillo, sono ancora in grado di riconoscere o, sentire, sentire, se preferisce, la sofferenza, quando mi passa accanto o è seduta nella poltrona che ora occupa lei. Ma certe volte succede che la sofferenza sia confusa con qualcos’altro, un sentimento diciamo meno chiaro, non saprei come dirlo meglio, le chiedo perciò uno sforzo di comprensione e di integrazione, per colmare il vuoto che l’obbligata stringatezza del mio discorso lascia aperto. È probabile, per tornare a noi, che l’istintivo rifiuto a rendere una completa testimonianza sia dovuto a un sentimento simile a quello di cui parlavo, il quale a sua volta potrebbe scaturire da una situazione di fatto della quale evidentemente non vuole parlare.
Si fermò, riafferrò la matita e ricomincio a giocarci. Quel pezzo di legno in perenne movimento cominciava a darmi sui nervi: avrei voluto strappargliela dalle mani, spezzarla e gettare i pezzi dalla finestra. Poi la sua faccia si fece seria e aggiunse che si doveva considerare, soppesare la possibilità che la provata relazione extraconiugale tra me e la signorina E. L. avesse un rapporto ancora da determinare nella sparizione di mia moglie. Dissi subito senza pensarci che ero sicuro che la nia relazione non aveva nulla ma proprio nulla a che fare con quanto era accaduto a Genia e che mi sembrava decisamente inappropriato per non dire di cattivo gusto tirare fuori le mie faccende personali in un momento come quello, e dire, aggiunsi dopo aver ripreso fiato, che lo avevo sempre considerato un uomo leale e un funzionario di grandi e comprovate capacità, la soluzione di due tra più intricati e complessi casi degli ultimi anni stavano lì a dimostrarlo, e la fede cristiana e cattolica facevano di lui ai miei occhi una persona speciale, perché la fede oggi, doveva ben saperlo, in un mondo che ci appare arido e vuoto, in cui il male e l’ingiustizia sembrano i segni inequivocabili del silenzio divino, di una sua assenza inconsolabile e…
Giudici si alzò di scatto dalla sedia mobile sulla quale era seduto e mi intimò di smetterla. La faccia finita, per favore, disse, come se mi tirasse addosso il suo incontenibile disprezzo, con lo stupore di chi non riesce a credere a quello che vede ma alla cui evidenza è costretto ad arrendersi. Qui stiamo parlando di un’altra e tutt’altro che soprannaturale assenza, ed è di questa che dovrebbe preoccuparsi. Lascerei da parte, se permette, anche la suscettibilità, non è certo per fare pettegolezzi che ho fatto riferimento a quelle che ha chiamato faccende personali, le quali, lei capisce, al cospetto di un avvenimento tanto drammatico, smettono di essere personali e private e diventano per noi ipotesi investigative. Dobbiamo vagliare attentamente la possibilità che la scoperta della sua relazione possa aver sconvolto a tal segno la signora da indurla a una decisione estrema, che, insomma, l’aver toccato con mano, diciamo così, l’ampiezza forse incolmabile della distanza, la lontananza massima tra voi, per usare i suoi termini, sua moglie abbia scelto la fuga come modo per negare e accusare nello stesso tempo l’insostenibile realtà, il fatto incontestabile di questa distanza che lei poco fa ha paragonato…
Continuavo a sentire il suono delle sue parole, così come sentivo il rumore di fondo delle auto, ma avevo perso il contatto con il loro senso. Tornavo invece a vedere gli occhi di Genia, grandi, miti, azzurri, che mi guardavano dallo specchio, che mi guardavano come se finalmente, all’estremità di un numero così alto di anni passati uno accanto all’altra, fosse riuscita a vedermi per quello che ero, fosse riuscita a scrostare con le unghie di quel nuovo sguardo la patina protettiva che nascondeva la mia più autentica personalità.
Attraverso lo specchio, sicura che non ne fossi consapevole, aveva tramutato la lontananza afelia della nostra relazione in una prossimità rivelatrice. La scena nel ricordo si bloccò come nel gioco infantile delle belle statuine: una con le forbici strette sull’unghia dura di un alluce, l’altra con una candida ostia di cotone tenuta tra le dita sottili e scure. Anche Giudici si interruppe a metà di una frase, la bocca socchiusa, perso nel vuoto delle parole diventate puri suoni, pezzi sparsi di una filastrocca insensata.
La lampada grigio acciaio si accese, le mani del commissario si colorarono di arancione, la matita cadde sul tavolo e il rumore dell’impatto mi svegliò. Un pensiero mi attraversò la mente e dissi piano (lo sguardo fermo sulle piccole e glabre mani del commissario che si andavano assottigliando sotto la macchia viva della luce), a me stesso e all’uomo dall’altra parte del tavolo, di non avere nient’altro da aggiungere; e poi, con la stessa distaccata voce: sono sicuro che non riuscirà mai a perdonarmi.
Immagine: ‘La carte postal’ di René Magritte