di Vito Bianco
“Ecco come bisogna guardarsi dall’aderire alle opinioni volgari, e come bisogna giudicarle con la ragione, non per quello che ne dice la voce comune” scrive Montaigne in chiusura del primo capoverso del saggio Dei cannibali (Libro I, capitolo XXXI, traduzione di Fausta Garavini), dopo aver ricordato che il re Pirro fu costretto a ricredersi quando vide l’ordinato schieramento dei militi romani che gli si opponeva: “Non so che barbari siano questi” pare abbia detto “ma la disposizione di quest’esercito che vedo non è affatto barbara”. Stessa sorte toccò a Filippo osservando da un’altura l’ordine e la distribuzione dell’accampamento romano nel suo regno, sotto Publio Sulpicio Galba. Come si intuisce dal titolo, l’argomento della meditazione è la diversità e la coazione ineliminabile a considerare barbari coloro i quali non fanno quello che facciamo noi e non credono quello che crediamo noi.
Molti secoli prima di Malinowski, Marcel Mauss e Lévi-Straus Montaigne redige, senza neppure proporselo, un vero e proprio manifesto di relativismo culturale, gettando le basi di quella che diventerà la critica dell’universalismo etnocentrico europeo. Lo fa in modo sorprendentemente radicale, e con qualche ingenuità e cedimento ai pregiudizi della sua epoca che rivela quanto sia difficile uscire del tutto dal proprio tempo. Negli anni in cui il saggista francese scrive, i diversi per eccellenza sono gli indigeni del Nuovo Mondo. E sono loro i presunti barbari che il nostro autore difende in nome della relatività dei valori, e lo fa usando lo strumento euristico del doppio sguardo: il nostro su di loro; ma pure, di rimando, il loro su di noi. Il suo informatore sugli usi e costumi di quella strana e quasi inconcepibile civiltà è un uomo che aveva vissuto a lungo – dieci o dodici anni – in “quell’altro mondo”.
Questa scoperta di “un paese infinito” commenta con una leggera ironia Montaigne “sembra sia di molta importanza. Non so se posso affermare che non se ne farà in avvenire qualche altra, tanti essendo i personaggi più grandi di noi che si sono ingannati a proposito di questa”. Di questo informatore sappiamo solo che è un uomo semplice e rozzo, una condizione che lo scrittore considera adatta “a rendere una testimonianza veritiera”, poiché le persone di ingegno fino, osservano con molta maggior cura, “e più cose”, ma hanno il deprecabile vizio di commentarle, “e per far valere la loro interpretazione e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la storia; non vi raccontano mai le cose come sono (…)”. La questione dell’obiettività e del punto di vista dell’osservatore, come si vede, si presenta già come un serio problema di metodo.
L’uomo privo di una precisa identità sembra fare al suo caso; si comporta infatti come uno strumento meccanico in grado di registrare con perfetta obiettività ciò che ha visto e sentito.Troppo semplice, viene da dire. È lecito sospettare che si tratti di una finzione narrativa che serve a dare sapore di autenticità al racconto. Perché la storia sia narrata senza alterazioni, insomma, occorre un uomo “o molto veritiero o tanto semplice da non avere di che costruire false e dar loro verosimiglianza, e che non vi abbia alcun interesse. Così era il mio”.Tanto semplice da essere privo di immaginazione. Ma che gli mostra “parecchi marinai e mercanti che aveva conosciuto durante quel viaggio. Mi accontento, quindi, di queste informazioni, senza occuparmi di quel che e dicono i cosmografi”. Sulla base di queste ultime, “e a quanto me ne hanno riferito” (presumibilmente i mercanti e i marinai) può dunque affermare che “in quel popolo non vi sia nulla di barbaro o di selvaggio”. Quello che accade è un fatto molto semplice: ognuno chiama barbarie “quello che non è nei suoi usi”.
Purtroppo, constata, “sembra (…) che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese. Qui è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”. A questo punto Montaigne fa un’affermazione abbastanza sorprendente, con la quale nega il primato della civilizzazione sulla stato di natura: “Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che con il nostro artificio abbiamo alterati e deviati dalla regola comune che dovremmo piuttosto chiamare selvatici”. Forse i veri selvaggi siamo noi, insinua il Signore
di Montaigne, che ci siamo allontanati dalla natura e dobbiamo considerarci il prodotto di un artificio. E se quei popoli possono sembrare barbari, è perché sono stati “in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla semplicità originaria”. È la prima mossa nella costruzione di quel mito del “buon selvaggio” che avrà più avanti notevole successo.
Ma l’idillio che viene immaginato in queste pagine ha già i tratti della favola su cui proiettare l’utopia di un’esistenza felice: “Quanto al resto, essi vivono in una contrada piacevolissima e dal clima temperato: sicché, a quanto mi hanno detto i miei testimoni, è raro vedere un uomo malato” scrive; “e mi hanno assicurato di non aver visto alcuno tremolante, cisposo, sdentato o curvo per la vecchiaia. (…) Hanno grande abbondanza di pesce e di carni che non somigliano affatto alle nostre, e le mangiano senza altro accorgimento che la cottura”. Poi ne loda la lealtà, la tenacia e il coraggio in battaglia (“Straordinaria è la loro tenacia nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di sangue, poiché fuga e panico non sanno che siano”) e la saggezza di “sapere godere della propria condizione e accontentarsene”, cosa che noi non sappiamo più fare, spinti dall’ambizione e dal desiderio di farci largo in società, lascia intendere Montaigne.
È vero che mangiano i nemici catturati, ma mentre rileviamo “il barbarico orrore che c’è in tale modo di agire” e giudichiamo le loro colpe, siamo “tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso ci sia più barbarie (…) nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci – come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa -, che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto”. Quando poi accade che tre rappresentanti di quella terra lontana, “non sapendo quanto costerà un giorno alla loro tranquillità e alla loro felicità la conoscenza della corruzione del nostro mondo, e che da questo commercio nascerà la loro rovina”, posano lo sguardo su di noi, quello che si produce è un destabilizzante straniamento: quello che sembrava naturale, ovvio, di colpo smette di esserlo.
I tre uomini “furono a Rouen, al tempo in cui c’era il defunto re Carlo IX. (…) Fu loro mostrato il nostro modo di vivere, la nostra magnificenza, l’aspetto di una bella città. Dopodiché qualcuno chiese il loro parere, e volle sapere cosa avessero trovato di più ammirevole”. Gli ambasciatori dell'”altro mondo” dissero che trovavano strano che uomini con la barba e armati “si assoggettassero a obbedire a un fanciullo e che invece non si scegliesse qualcuno di loro per comandare”, e che avevano notato che c’erano tra noi “uomini pieni e saturi di ogni sorta di agi, e che le loro metà (ossia, altri uomini) stavano a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà; e trovavano strano che quelle metà bisognose potessero tollerare una tale ingiustizia, e che prendessero gli altri per la gola o non appiccassero il fuoco alle loro case”. Vedere quello che non riusciamo più a vedere, che forse non abbiamo mai visto davvero, è il potere dello sguardo che proviene dall’estraneo: è già qui in azione l’escamotage narrativo che verrà utilizzato da Montesquieu e poi da Voltaire nei testi di finzione in cui i moeurs francesi vengono destrutturati e messi a nudo dagli occhi vergini di visitatori alieni.
Dei cosiddetti selvaggi Montaigne apprezza molto anche i costumi matrimoniali, ovvero il dominio dell’uomo sulla donna. Gli uomini laggiù possono avere più di una moglie, le quali convivono senza gelosia e anzi contente di poter contribuire all’accrescimento del numero delle signore, “e tanto più ne hanno quanto maggiore è la loro fama di valorosi”. La mente di Montaigne, così aperta e pronta a mettere in discussione ogni idea ricevuta, si chiude deferente davanti alla convinzione che sia accettabile e giusta la sottomissione delle donne. “C’è una cosa di davvero notevole nei loro matrimoni” leggiamo,”che la stessa cura gelosa che hanno le nostre mogli nell’impedirci l’amore e il favore di altre donne, le loro le ripongono nell’acquistarli ai mariti”. Le donne potrebbero “gridare al miracolo”, ma lo scrittore si premura di sottolineare che questa è una virtù “prettamente matrimoniale, ma del più alto grado”: non un’eccezione, quindi, ma una regola sancita dalla tradizione.
E del resto la Bibbia, che può tornare utile anche ai liberi pensatori, ci fornisce al riguardo numerosi esempi: “Lia, Rachele, Sara e le mogli di Giacobbe fornirono le loro belle ancelle ai mariti”, e nell’antichità abbiamo il caso di Livia, e la moglie del re Deiotaro, Stratonica, “non solo dette al marito, perché ne usasse, una giovane e bellissima ancella che la serviva, ma ne allevò con cura i figli, e li sostenne nella successione al padre”. Per il filosofo che ha sottoposto al metodo scettico ogni aspetto dell’esperienza umana, che ha osservato senza pregiudizi la sua anima cangiante “sempre in tirocinio e in prova”, le donne, pur così vicine, erano più lontane degli abitanti di Tenochtitlan.