di Vito Bianco

Prima di arrivare a Innseliche le ceneri di Walter si erano smarrite in un giro tortuoso che sembrava riprodurre quello di certe sue frasi interminabili con le quali metteva alla prova la pazienza dei suoi fedeli lettori. Si erano concesse una sosta a Innsbruck e a Isenheim, quelle quasi impalpabili spoglie, come se volessero ritardare il più possibile il momento fatidico e finale della dispersione al vento che di certo non sarebbe mancato la mattina del commiato e degli estremi onori. Il figlio famoso e temuto tornava, per restarci in eterno, nella città in cui era nato e cresciuto, che compare in un romanzo breve con un  nome appena alterato, sfondo riconoscibile di una tragicomica vicenda di avidità e odio. Due professionisti della panoramica cittadina montana lo avevano, imprevedibilmente, letto e si erano riconosciuti in uno dei personaggi, un avvocato fedifrago che commette un delitto, ma Monastir, allo stesso giornalista che aveva firmato il reportage da Innseliche, aveva detto in tono tranciante che è impossibile convincere certa gente che la letteratura non ha nulla a che fare con la vita. Eppure in passato avevamo ascoltato dalla sua viva voce considerazioni che lasciavano intendere che era legittimo, a certe condizioni, ipotizzare una qualche forma di corrispondenza tra la pagina e quella che convenzionalmente chiamiamo realtà, qualunque cosa la parola designi. Comunque sia, e senza approfondire la questione, è molto probabile che nel caso di Resa dei conti l’identificazione fosse affatto arbitraria, frutto forse di un desiderio di sopravvivenza per interposto personaggio che la vibrata protesta per l’indebita appropriazione aveva lo scopo di mascherare. La scoperta, attraverso il quotidiano provinciale, che Walter Monastir chiedeva che le sue ceneri fossero disperse a Innseliche al termine di una pubblica cerimonia, aveva sorpreso tutti: le tre mogli, i tre figli, il fratello Anselm, il sindaco e le personalità più in vista della città che il nostro celebre autore aveva ripetutamente attaccato, definendole  “parassiti della falsa concordia e piccolo borghesi intellettualmente inabili” e messo alla berlina nel memoir Punto di fuga, il suo testamento intellettuale, secondo le sue stesse parole, ribadendo l’antipatia per i libri che si propongono di raccontare la storia, inenarrabile, di un’esistenza. C’era quindi la concreta possibilità che le autorità cittadine scegliessero di non rispondere, o di rispondere negativamente alla richiesta dei figli che  chiedevano, in nome del padre, che l’amministrazione comunale deliberasse ufficialmente per una pubblica cerimonia di accoglimento e dispersione delle spoglie del suo, tanto illustre quanto intemperante, cittadino, peraltro ancora anagraficamente residente a Innseliche. Albert Coin, il suo migliore amico, professore in pensione del Liceo Herder, era sicuro che la giunta, con in testa il sindaco, si sarebbe opposta; l’unico dubbio riguardava la forma: silenzio, o comunicato stampa reticente e ipocrita per salvare le apparenze? A chi gli chiedeva un parere sulle ultime volontà dell’amico, il vecchio Coin rispondeva, stringendo gli occhi: “È il suo ultimo scherzo”. In effetti, quel foglietto scritto a mano nel quale lo scrittore chiedeva, con poche e asciutte parole, di poter riposare nel “luogo dove sono venuto alla luce”, aveva tutta l’aria di un divertimento post mortem, anche se riposo voleva in questo caso dire dispersione, fusione, disseminazione, insomma, ritorno agli elementi. Cinque giorni dopo l’arrivo del telegramma firmato dai tre figli che Monastir aveva concepito con tre diverse donne, la giunta comunale rese noto che “Alle undici del giorno 21 del corrente mese di  novembre, nella piazza del Duomo, nei pressi del monumento che ricorda  Ulrich Gasteimer, si sarebbe svolta una breve cerimonia in onore dello scrittore, nostro concittadino Walter Monastir, che con la sua opera ha dato lustro e celebrità alla città di Inseliche, già celebre per aver dato natali al celebre scienziato Gasteimer, geografo ed entomologo. La cittadinanza tutta è invitata a partecipare”. Il comunicato venne affisso nell’atrio del comune, nei due principali circoli, nei caffè del centro e pubblicato per tre giorni in un riquadro a pagamento sul quotidiano Tagezeit. Non tutti sapevano chi era; i più ne avevano solo sentito parlare o l’avevano visto per qualche minuto in un servizio del telegiornale dedicato al vincitore del premio Walser: due occhi scuri al centro di un faccione rubizzo da alcolizzato, la parlata lenta, una voce profonda di baritono, il dono della sintesi tipico della gente delle nostre parti, che centellina le frasi come se fossero foderate d’oro. I lettori locali di Monastir non superavano il numero di venti; tra questi venti c’era Coin, e c’ero io, che l’avevo scoperto a scuola grazie a un professore di letteratura che una mattina mi aveva visto in biblioteca con un libro dell’argentino Saer, quindi giudicato degno di Monastir, la gloria locale in odore di zolfo. Finito Saer presi Cancellazione, il suo romanzo d’esordio, che racconta della progressiva ritirata dal mondo di un naturalista dopo un incidente di macchina dal quale esce miracolosamente  illeso, ma non la moglie, che invece muore sul colpo. Poi fu la volta delle Nuvole erranti, e di Fuoco, il libro feroce con cui vinse, inaspettatamente il Walser, la cui giuria, di solito molto attenta alla correttezza letteraria,  volle quell’anno concedersi un verdetto scandaloso.

Il cielo era grigio chiaro; sulle cime delle montagne più alte si era già depositato il primo strato di neve, troppo sottile per poter durare fino all’indomani; il vento: il vento c’era, come previsto, ma tirava forte solo a tratti, poi seguivano lunghi minuti di pausa, di silenzio musicale, durante i quali coppie di foglie color tabacco scuro  a forma di cucchiaio si staccavano dagli alberi del giardinetto quadrangolare e scivolavano lente ruotando su se stesse simili a trottole prive di peso. Una era finita sul cappello di Elise, la moglie più anziana, la madre di Victor, quarant’anni circa, specialista di malattie nervose al Santa Marta di Berna. Era accanto a lei, stretto in un cappotto nero lungo, in testa un berretto di lana di un colore indeciso tra grigio e marrone, le mani dentro aderenti guanti di pelle  beige, il viso per metà nascosto da una sciarpa fumo di Londra. Si accorse della foglia, e con un colpo dell’anulare destro, come si fa giocando a subbuteo, la spazzò via dalla tesa del cappello della madre, che non si accorse di niente. L’aria fredda tratteneva il respiro mentre le trenta persone o poco più attendevano, disposte in semicerchio attorno a un basso tavolino di legno e ferro, l’arrivo delle spoglie di Walter Monastir. Tra queste, Albert Coin con la moglie, una signora secca con un minuscolo naso a punta e le labbra dipinte di rosso, l’ultima compagna dello scrittore, Irene, una bella donna che non aveva ancora varcato la soglia dei cinquanta, e il corrispondente locale del Tagezeit; assenti ingiustificati i due figli più giovani, un maschio e una femmina di trentacinque e trenta che vivevano da molti anni in Québec. Di lato, su una pedana di legno ricoperta da un tappeto rosso, tre suonatori di fiati – clarinetto, tromba e basso tuba – se ne stavano immobili davanti ai leggii con gli spartiti, pronti a soffiare nei loro strumenti a un segnale convenuto. In rappresentanza dell’amministrazione, il sindaco, un assessore e il giovane e sorridente segretario comunale, che batteva i piedi e si guardava alle spalle come se stesse aspettando un amico che doveva giungere da una delle tre vie che dalla parte nord della città portavano alla piazza della Cattedrale.

Alle undici e mezza una Audi bianca si fermò a una decina di metri dal giardinetto. Lo sportello posteriore si aprì e scese un signore alto e distinto che teneva sugli avambracci una cassettina di rame non più lunga di venti centimetri. L’uomo avanzò a grandi passi quasi solenni tenendo davanti a sé la cassetta che stavamo aspettando, lo sguardo rivolto al giardino. Doveva essere questo il momento della musica, ma i musicisti tacevano, forse perché chi avrebbe dovuto dare il segnale se ne era dimenticato o era stato colto dall’emozione. Il segretario infreddolito disse qualcosa all’orecchio del sindaco che subito si staccò da lui per andare dai musicisti, i quali finalmente attaccarono una marcia funebre che partiva in sordina e andava crescendo fino a toccare un culmine dopo il quale tornava al sussurro dell’inizio. Il sindaco, pingue e stempiato, con gli occhiali, un pizzetto canuto e la fascia obliqua che terminava sotto la natica destra, prese compunto la cassetta dai palmi dell’uomo e la sistemò sul tavolinetto collocato accanto al basamento della statua di Gasteimer. Con una mano sull’urna e la testa china, rimase in meditazione un paio di minuti, con le note degli ottoni che salivano e scendevano e salivano di nuovo, trascorsi i quali qualcuno gli fece cenno di avvicinarsi a un amplificatore collegato a un microfono, che tenne con le ultime falangi della mano sinistra, come se fosse troppo caldo per poterlo stringere. Fece un “ah ah ah” di prova e disse: “Cari concittadini, ci siamo riuniti qui questa mattina…”; le parole che seguirono furono coperte dalle note dei musicisti che, inspiegabilmente, avevano ripreso a suonare un valzer lento. Il sindaco guardò sgomento il segretario comunale che scattò verso il palchetto dei suonatori agitando le braccia per richiamarne l’attenzione: il valzer si spense a singhiozzo, con un lamento conclusivo del suonatore di basso tuba che non aveva colto subito il segnale irritato del segretario. “Quando un figlio, per quanto prodigo, torna alla casa del padre, è sempre una festa, anche quando, come nel nostro caso, il ritorno è funestato dal lutto per la perdita terrena di un’anima tanto grande quanto tormentata. È con dolorosa gioia, se mi è concessa la contraddizione, che oggi accogliamo le spoglie mortali del nostro illustre concittadino Walter Monastir, narratore, pensatore ed esploratore degli abissi insondabili dell’animo umano. Monastir è mancato all’affetto di noi tutti e dei suoi cari, i figli, la moglie, il fratello, assente a causa di un piccolo problema di salute, ma, con il poeta antico, io dico che dei giusti non possiamo dire che siano morti”. Un fischio rauco e gracchiante coprì le ultime parole, deformandole, e sembrò che il primo cittadino avesse detto “dei gusti non puoi dire che siano torti”. Il sindaco ricominciò a parlare, ma sentivano solo i più vicini: il tecnico si avvicinò e gli disse che per farsi sentire doveva tenere premuto col pollice il bottoncino rosso. “Non mi rimane che esprimere, in conclusione, la vicinanza alla famiglia dell’amministrazione comunale tutta, qui rappresentata da me, dall’assessore alle attività culturali e dal segretario comunale, che tanto si è speso nell’organizzazione di questa cerimonia. Passo la parola ai familiari. Grazie”. Seguirono applausi indecisi e due o tre colpi di tosse. I musicisti riattaccarono all’unisono su un tempo che somigliava a quello di un paso doble. Dagli occhi del segretario, che aveva quasi strappato il microfono al sindaco partì un fulmine diretto ai tre sconsiderati strumentisti, che si fermarono. “Dopo le belle parole del nostro sindaco” disse “non resterebbe altro da fare che far parlare, appunto, i figli, le amorevoli compagne del maestro Monastir, un maestro esigente, vorrei dire, un uomo, un poeta, benché usasse esclusivamente la prosa (ma che prosa!), che, possiamo dirlo, non le mandava a dire (scusate il bisticcio di parole). Ma chi ha un carattere ha un brutto carattere, diceva Churchill, ma lui in fondo era un uomo profondamente buono, anche se complicato, che è sempre rimasto, in fondo, sempre legato a Innseliche, e io sono sicuro che il ricordo della sua città lo ha accompagnato in tutti i luoghi in cui ha vissuto”.

Si fermò e rivolse un ampio, luminoso sorriso alla moglie più anziana e al figlio dottore che gli stava accanto. “Ma bando alle ciance” riprese. “Vorrei a questo punto leggere qualche riga del grande e già rimpianto Monastir, un autore che ha dato alle nostre lettere un contributo che è ancora presto per essere valutato nella sua reale portata”. Tirò fuori dalla tasca del cappotto un tascabile e cominciò a leggere dall’inizio del terzo capitolo di Punto di fuga, quello in cui l’autore descrive un certo salotto con pretese intellettuali e mette in scena un dialogo tra la padrona di casa e un certo W. Altofer, il poeta della città. Era difficile trattenere il riso, e infatti qualcuno rise apertamente, altri si sforzarono di non farlo, altri ancora si allonatanarono per poterlo fare senza essere visti. La moglie anziana restò impassibile, Victor sorrise con gli occhi (la bocca era coperta dalla sciarpa), la più giovane rise un po’ mettendosi una mano guantata sulle labbra carnose, il sindaco ridacchiò ma subito assunse un’aria severa, di rimprovero, una coppia di anziani coniugi, dietro il segretario, applaudirono senza suono e il vento calò veloce e freddo dalle montagne scrollando i rami e portando via il cappello alla prima moglie, che restò immobile, con i corti capelli color mogano che si agitavano impazziti. Albert Coin prese il microfono, pregato dal segretario. Parlò con una lentezza esasperante, facendo lunghe pause tra una frase e l’altra. Sembrava svogliato, infastidito, forse pentito di essere venuto ad assistere a una cerimonia che doveva sembrargli assurda, insensata, ma nello stesso tempo, sono sicuro, coglieva, in quella commedia obbligata ordita dal morto, il tono monastiriano della recita, come se una scena di uno dei suoi libri fosse scivolata oltre il bordo della pagina per incarnarsi nei corpi e nelle facce che circondavano l’urna. “Walter era incomprensibile” disse. “Se fosse qui vivo si divertirebbe molto. Era un umorista. Un umorista tragico. Ma anche questa formula è imprecisa. Mi sono chiesto in questi giorni perché ha deciso di tornare, seppure da morto. All’inizio, devo ammetterlo, ho pensato: è uno dei suoi scherzi, l’ultimo. Ma poi, ripensandoci, mi sono detto che era una risposta troppo semplice. È possibile che questa strana decisione sia un modo per dirmi qualcosa, ho pensato. Ma cosa?” Il microfono si rimise a friggere e Coin lo allontanò istintivamente. Era concentrato, attento ma di un’attenzione come sospesa e isolata, astratta e intima: Albert Coin era lì, con noi, al centro di quel semicerchio di persone infreddolite e vagamente commosse, e non era con noi, impegnato, sembrava, a cercare le tracce di un ricordo, la memoria esatta di una frase, qualcosa. Il tecnico del suono finì di armeggiare e gli fece cenno che poteva riprendere. Coin si ridestò, sorrise imbarazzato e mormorò che aveva perso il filo del discorso. Il segretario gli andò in soccorso: avvicinando la bocca al microfono che l’amico di Monastir aveva riportato all’altezza del mento, suggerì: “Stava dicendo, mi pare, che la decisione del suo vecchio amico è forse un modo di dirle qualcosa, a lei ma forse, voglio azzardare, a tutti noi, a tutti i cittadini di Innseliche…” Il professor Coin sorrise e si toccò i folti baffi bianchi: “Perché no? È possibile che lei abbia ragione. Il messaggio potrebbe in effetti riguardare l’intera cittadinanza, e forse tutti i suoi lettori sparsi in molti paesi…” “E quale potrebbe essere, secondo lei, il messaggio?” chiese il segretario, di nuovo accostando la bocca al microfono per farsi sentire anche dai più lontani. “Che siamo polvere e polvere ritorneremo…?”

Non era stato Coin a parlare, ma un cinquantenne barbuto chiuso ermeticamente in una giacca a vento arancione, testa compresa. “Troppo banale” disse forte un ragazzo basso e magro, con barbetta rada e gli occhiali, forse uno studente universitario. “L’autore di Resa dei conti non avrebbe mai comunicato un messaggio così banale. Secondo me è voluto tornare per…per prenderci, per prendervi in giro, per ribadire quello che pensava della città e di certi suoi rispettabili cittadini. Se c’è un messaggio, il messaggio è questo”. Il sindaco disse con voce stentorea e rosso in viso che quella era un’ipotesi che non stava né in cielo né in terra, e che la decisione di Monastir era un chiaro segno di riconciliazione con la città che gli aveva dato i natali: “Il messaggio è questo, non ci sono dubbi. La decisione di tornare vuole significare che…vuole significare che il ricordo, che il ricordo era rimasto vivo…vuole significare il desiderio di ritornare all’aria che aveva respirato venendo alla luce, altro che beffa!…E ora, se il nostro caro professor Coin ha finito, inviterei la signora Elise a dire qualcosa sul marito, a condividere con noi, se vuole, un ricordo, un aneddoto”. La signora fece un cenno di diniego con la mano, che poi si passò sulla fronte, per dire “troppi pensieri, meglio il silenzio”, il figlio le circondò le spalle dall’alto del suo metro e novanta, la moglie in carica si mosse nervosa, forse aspettandosi di essere chiamata a intervenire, o perché ne aveva avuto abbastanza e voleva a andarsene, ricominciare a vivere. Il sindaco pronunciò il nome del figlio Victor e il figlio andò incontro al suo destino, il destino di un figlio che non sa nulla del padre costretto a parlare del padre scomparso non da dieci giorni ma da trentacinque almeno, del quale quindi può dire solo o cose generiche e di circostanza o cose dolorose e sincere, ossia risentite e astiose. Questo figlio si tenne in equilibrio per qualche minuto, e i presenti lo ascoltarono con lo stesso incanto e terrore con cui si guarda l’esibizione dell’equilibrista che cammina sul filo a trenta metri dal suolo minaccioso. Disse che faceva fatica a richiamare alla memoria il volto del padre, o la sua voce, ma in compenso ricordava il suo odore, un odore di menta amara, “anche se non credo che esista la menta amara”, volle precisare, con uno scrupolo eccessivo che ne rivelava la formazione scientifica. “Io non sono un letterato, sono un medico, perciò non posso dire nulla di interessante sui libri di mio padre” proseguì il figlio di Monastir, stringendo il microfono con entrambe le mani. “Ma in quanto figlio potrei dire molte cose. Potrei dire per esempio che mi mandava un regalo a ogni compleanno, ma non sarebbe interessante, tuti i padri fanno un regalo ai figli quando compiono gli anni. Lui mi mandava ogni volta un libro. Nei primi anni favole, poi romanzi adatti alla mia età, poi libri sempre più complicati. Tutti gli anni i libri arrivavano con una straordinaria puntualità, mai una volta che non siano arrivati puntuali, arrivavano sempre con una inverosimile precisione, una precisione così imcredibile che me lo faceva immaginare come un mago, perché pensavo che solo un mago poteva fare quello che lui faceva; un libro all’anno fino al mio ultimo compleanno, senza nemmeno un biglietto di auguri, solo il libro, ogni volta più impegnativo, e se ora penso che non riceverò più il libro, più nessun libro da lui…Be’, che dire, potrei anche smettere di leggere, o rileggere i libri passati, i libri di tutti i  compleanni passati, oppure potrei…” Si fermò a questo punto, lasciando a noi di immaginare cos’altro pensava di poter fare. Il figlio tornò accanto alla madre, i suonatori fecero sentire le prime sommesse note della marcia funebre, il segretario si avvicinò all’urna, la aprì, la sollevò in alto e con un colpo secco, a occhi chiusi, lanciò il contenuto in aria. Le ceneri di Walter Monastir restarono un momento sospese sulle nostre teste. Poi il vento le traspostò sulla grande faccia di bronzo della statua che ci sovrastava.
Non sono in grado di provarlo, ma sono sicuro che un granello di quella cenere si nasconde ancora in una delle cavità oculari di Ulrich Gasteimer.

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dipinto di Romaine Brooks

Di Bac Bac