di Nuccio Dispenza
“Gran Caffè Cipriani”. Il nome è altisonante e rinvierebbe ad altri quartieri, magari ai Parioli, al caffè buono della domenica, con belle donne tutte bionde e uomini griffati, ad appuntamenti importanti, con di mezzo affari almeno a tre cifre. O ad una bella terrazza panoramica affacciata sui tramonti romani. A farlo pensare, forse quel “Cipriani”. Anche qui un rinvio, all’Harrys Bar di Venezia. No, il “Gran Caffè Cipriani” è tutt’altro.
Piazza di Saxa Rubra, Prima Porta, periferia nord di Roma. Da un lato si inerpica la Flaminia, antica strada militare romana, dall’altra la Tiberina, altra antica strada romana che risalendo la valle del Tevere punta all’Umbria. Ora la Flaminia porta a borghi e paesi che si sono riempiti di chi è fuggito da Roma e da chi lì trova case a buon prezzo. Ora sulla Tiberina, tortuosa e sconnessa battono ragazze dell’Est e giovanissime nigeriane, chissà perchè per lo più strette in cortissimi vestitini di color rosso. Qui c’è sempre nebbia, una grande umidità. Qui, dove furono girate alcune scene de “In nome della rosa”, avrebbero voluto farci una discarica. Fermata, forse.
Si, la piazza di Saxa Rubra è uno snodo, una “stazione”. Ha anche una stazione, quella del trenino che la collega al centro di Roma da un lato, che sale verso i borghi e i paesi a nord, fino ad arrivare a Viterbo. Trenino di pendolari, di lavoratori e lavoratrici di ogni angolo del mondo, nigeriane comprese. Uno dei collegamenti peggiori d’Italia, dicono le classifiche. Ma la piazza di Saxa Rubra è essa stessa “stazione”, confine tra capitale e periferie. Essa stessa è prima periferia. Non solo geografiicamente e urbanisticamente parlando. Periferia, periferie.
Saxa Rubra, sassi rossi per il tufo rosso della zona. La leggenda preferisce raccontare che Saxa è rossa per il sangue versato nella famosa battaglia di Ponte Milvio. Leggenda e storia, con la vittoria di Costantino, quel 28 ottobre del 312, che segnò l’inizio di una nuova era per l’impero romano. Si, a Saxa Rubra, c’è pure la Rai, brutto complesso recintato di palazzine che erano state pensate per realizzare un carcere. Premeva Italia ’90 e si convertì il progetto in centro stampa. Poi lo prese la Rai. Costruito nel bel mezzo di un’oasi che avrebbe meritato una rigorosa protezione.
Tutt’attorno quel che è rimasto di una natura affascinante, qualche settimana addietro è stato devastato da un rovinoso incendio che ha quasi cancellato una flora straordinaria, disperso una fauna interessante.
Al”Gran Caffè Cipriani” la prima volta che ci entrai, alla cassa, per distrazione, ci lasciai il portafogli. Pensai che era un addio, provai a chiamare trovando su Google il numero telefonico. Gentilissima, la cassiera mi rassicurò: “É qui, lo ha trovato un ragazzo nostro cliente e me lo ha dato in attesa che lei se ne accorgesse. Venga “. Pensai, fortuna che il caffè non è ai Parioli. Ci tornai, e poi ci tornai ancora. E ci torno spesso per osservare un’umanità che vive con difficoltà ma che ha una sorprendente compostezza. Ordinati e composti pure quelli che bevono vino in cartone lì fuori. Non hanno altro. Scolano e ordinano i cartoni vuoti su un ripiano degli uffici della municipalità, poi quando i cartoni vuoti arrivano ad essere tanti da non starci più, li portano nei cassonetti della differenziata. Quelli che bevono sono dell’Est, quelli arrivati qui per primi. Hanno incontrato il vino, non la fortuna. Poco distante, stazione nella stazione, una bilancia sul marciapiede, un capannello. Serve a pesare i pacchi che si spediscono a casa, ai familiari lontani: Romania, Polonia… Si stipano i pacchi nel rimorchio, si stipano le persone nel pulmino.
Al “Gran Caffè Ciampini” qualche volta però la fortuna è entrata, è saltata fuori da uno dei mille e mille Gratta e Vinci che si vendono. Li comprano tutti, sono tutti stanchi di spaccarsi mani e spalle, la fortuna è da tentare. Va via parte di quel che si è guadagnato, importa poco. Caccia alla fortuna e birra per quietare le fatiche di un giorno lungo e pesante. Le ragazze della Tiberina, quando smettono di battere, in attesa del trenino, qui tornano ragazzine e basta: un dolce, un gelato. Al “Gran Caffè Cipriani” ci passano pure le suore della vicina clinica Santa Maria di Leuca, quasi tutte indiane. E pure qualcuno dei frati Paolini della parrocchia dei santi Urbano e Lorenzo, rifatta all’ombra della straordinaria e poco conosciuta Villa di Livia, lì dove si coltivava l’alloro per confezionare le corone per cingere la fronte dei vincitori, dei poeti. I Paolini sono tutti giovani e dell’Est, perchè dell’Est furono qui i primi flussi di migranti. Fanno tanto più loro che non lo Stato: assistenza e aiuti materiali a chi ha bisogno, doposcuola ai piccoli. Non chiedono chi sei, cosa fai, quale il tuo Dio.