di Enzo Campo
Il 19 luglio 1966 per Agrigento è, dovrebbe essere, una data epocale, di quelle che fanno contare il tempo fino alla quale e a partire dalla quale.
In quel giorno, come tutti sappiamo, la Città fu interessata da una frana di imponenti dimensioni che avrebbe anche mietuto vittime umane se Francesco Farruggia, uno spazzino, che s’accorse di strani movimenti delle case, non avesse pensato ad un terremoto e non avesse dato l’allarme.
I danni furono enormi, quartieri devastati, palazzi letteralmente inghiottiti dalla terra.
Le indagini che ne seguirono misero in luce quello che fu definito “Il sacco di Agrigento”.
Nei dieci anni precedenti la Città era stata letteralmente stravolta dalle nuove costruzioni, dagli enormi palazzoni protesi verso il cielo a scimmiottare grattacieli americani che gli agrigentini chiamavano “tolli”.
Quello del tollo era un gioco di strada, prima dei flipper e dei videogame.
Si allestiva una pila di pietre piuttosto piatte e in cima ad essa si collocavano le poste dei giocatori, che a turno e secondo regole precise, dovevano colpire il tollo e intascare la parte della posta che era caduta a terra.
I tolli erano sorti dovunque. Dovunque ci fosse un minimo spazio o dovunque un minimo spazio si potesse ricavare, lì nasceva un nuovo tollo.
Interi terrapieni erano sati sbancati e rigogliosi giardini abbattuti; una bellissima Villa pubblica, la Villa Garibaldi, era diventato un quartiere residenziale, e i palazzi che spuntavano come funghi prendevano i nomi dei costruttori, il più delle volte maestri muratori che s’erano fatti promotori della singola impresa.
Se si riflette un po’, fu il trionfo del privato sul pubblico, del personale sul collettivo.
La Villa Garibaldi, che era di tutti, divenne di pochi; il belvedere di Piazza san Giuseppe che faceva godere a chiunque la bellezza della Valle e del mare divenne appannaggio esclusivo, privilegio, dei pochi che divennero proprietari dei “quartini” che componevano l’imponente palazzone che sormontando la via Amendola va da piazza san Giuseppe alla via Empedocle; tutto un costone di terreno, in cima al quale c’era un bellissimo cinema all’aperto che faceva godere, insieme, della vista di un film e dello spettacolo naturale della Valle dei Templi e del mare venne sbancato per far posto ad una serie di nuovi palazzi di cemento armato; uno “squaro”, uno dei giardini squadrati a valle di Porta di ponte divenne l’area per costruirvi il Jolly hotel, come anche una villetta in fondo al Viale della Vittoria divenne l’area sulla quale fu costruito un grande palazzo – quello dove ci fu il famoso Uaddan.
La città cambiò letteralmente la sua fisionomia.
Quello che era stata una sorta di anfiteatro di case a degradare perché seguiva l’andamento della collina venne letteralmenteoccluso dalle nuove fabbriche e, qua e là, disordinatamente, fra le case della vecchia città ne fuoruscivano altre al posto di giardini privati e di conventi.
Le indagini e gli studi che ne seguirono, oltre ad accertare responsabilità, furono tali di imporre limiti e vincoli per la città e le sue nuove costruzioni, e indussero perfino il legislatore ad innovare radicalmente la legge fondamentale sui suoli per tutto il Paese.
Il 19 luglio del 1966, dunque, è – o dovrebbe essere – uno spartiacque, la data che segna il prima e il dopo.
In effetti, non è che all’anarchia costruttiva assoluta del prima si è sostituito l’ordine assoluto e perfetto del dopo! Niente affatto.
In una città che vive esclusivamente o quasi di terziario impiegatizio, nella quale l’agricoltura è assolutamente marginale, dove non c’è nessuna attività produttiva neanche artigianale, il costruire, paradossalmente, diventa attività produttiva della quale difficilmente si riesce a fare a meno.
A parte i fatti di abusivismo edilizio, dopo la frana, dopo il presunto o lo sperato spartiacque, c’è stata una sorta di regime della deroga, della variante, dell’eccezionale.
Una legge finalizzata a favore lo svolgimento dei mondiali di ciclismo in città ha consentito, per esempio, di raddoppiare un Hotel – l’Hotel della Valle – in deroga allo strumento urbanistico; un’infinità di fabbricati furono costruiti come rurali, quando di rurale non avevano nulla; il Palazzo che in via San Girolamo aveva ospitato il Consolato britannico fu demolito e ricostruito ex novo col solo vincolo di lasciare il vecchio portale; il palazzo del Jolly la cui costruzione era stata consentita sul suolo dello “squaro” col vincolo che avesse per sempre una destinazione turistica, fu tranquillamente venduto all’Unicredit o forse alla banca che l’ha preceduto che ovviamente vi svolge attività ben lontane da quelle turistiche, tutte economiche e finanziare.
Uno sgabuzzino che fu adibito -e ora non più- ad ufficio informazioni della soppressa Azienda autonoma soggiorno e turismo, attribuisce destinazione turistica ad un palazzone di cinque elevazioni fuori terra per una superficie che non so indicare ma che non sarà inferiore ai 500 metri quadrati; l’ufficio informazioni non c’è neppure più, la banca sempre, la destinazione turistica, nonostante vi sia svolta attività finanziaria,pure.
Dopo la fatidica data del 19 luglio 1966, e nonostante quella fatidica data, la città si è estesa enormemente, con una serie di quartieri tutti attorno al centro storico, in ogni direzione, perfino quella a nord che era disdegnata da tutti e occupa oggi una superficie assolutamente sproporzionata rispetto alla popolazione residente. Una superficie enorme per una città che è – dovrebbe essere – piccola per il numero dei suoi abitanti.
E con interi quartieri, quelli vecchi o storici, come si vogliono chiamare, che si spopolano sempre di più.
La demolizione della Villa del Sole è, in ordine di tempo, l’ultima azione “in deroga” e comunque in direzione opposta e contraria a quella che la normativa post-frana avrebbe voluto stabilire per “la più bella città di mortali” – che in realtà era un po’ più giù dell’attuale Agrigento, dove oggi c’è una specie di bellissimo costone fra viadotti, palazzoni, villini, villette, quartieri.
Facciamo che sia veramente l’ultima in assoluto e non solo in ordine di tempo poniamo termine a quel sacco che non è mai finito.