di Pepi Burgio

A pochi giorni dall’uscita di Planisfero, il nuovo libro di Vito Bianco, pubblichiamo in anteprina, per gentile concessione dell’editore Antipodes, la postfazione di Pepi Burgio.

Nessuno pensa che l’aria gelida avvertita dai poeti abbia solo a che fare con la metereologia. Cardarelli per dire non congedava mai, manco d’estate, il suo cappotto. Piuttosto i poeti convertono nella febbre eccitata dell’atto creativo il gelo dei loro grumi esistenziali. E non gli è di alcun conforto alzare il bavero del cappotto poiché, come nelle canzonette, “fuori piove, è un mondo freddo”, “tutto intorno pioggia, pioggia, pioggia”. A riguardo si rivelano inquietanti i versi finali de L’uomo di neve, componimento presente in Planisfero: il pupazzo con la carota per naso, “il vigile uomo che dal nulla / che si scioglie scruta nel freddo / nostro nulla che gli rassomiglia”.

         Si avverte in questa nuova silloge il malessere del trascorrere in una sorta di glaciazione dell’anima che, alla maniera di un famelico blob, si slarga a dismisura e inghiotte l’intera civiltà occidentale, mutatasi ormai da tempo in un immenso tubo digerente. Su essa Vito Bianco proietta, schivando comode suggestioni distopiche, la dolente ironia dell’ “homme de lettres”. In Preghiere, una delle più pregevoli poesie proposteci, la pioggia battente reca “l’odore impronunciabile dei monasteri”, dove la lingua fattasi mantra tende al mistero della trascendenza e dell’origine della parola; dacché i poeti, avidi di sostanzialità, credenti o non credenti, a dire di Luca Doninelli non possono smettere di invocare.

         Nelle nuove poesie di Vito Bianco si coglie una sorprendente puntualità espressiva, prossima all’ “entelechia”, al pieno compimento, alla completa realizzazione delle potenzialità già scorte sin dai componimenti d’esordio. Nei suoi versi ricorrono spesso immagini (“il fiato di foglia” della gazzella, “fiore carnale della terra”, il collo magnifico della giraffa a “cui starebbe bene un giro di perle”, “la montagna che annusa i cieli”) che affrancano il linguaggio da ogni destinazione “calcolante”, e lo pongono in sintonia col suo carattere più proprio, cioè quello di una rappresentazione simbolica della realtà mediante una stravagante congiunzione dei sensi. Ciò probabilmente intendeva Goethe quando sosteneva che la creazione poetica fosse testimonianza di liberazione.

         Gottfried Benn, poeta espressionista tedesco attivo nella prima metà del secolo scorso, si interrogava sull’utilità della poesia per così concludere: “La poesia non migliora ma fa qualche cosa di assai più decisivo, essa modifica. Nella poesia tutte le cose si capovolgono, tutti i concetti e le categorie mutano il loro carattere nell’istante in cui vengono considerati sotto l’angolo visuale dell’arte”.

         Tra le tante poesie di Planisfero, alcune risaltano per una preziosità particolare: Il ragazzo, componimento di notevole conio formale, che dall’alto dei suoi trampoli osserva la nostra vita (poesia questa da ri-cordare, direbbe  Massimo Cacciari alludendo all’etimo); e Nordest, drammatica e sincera creazione che evoca topoi letterari e fotogrammi di film americani; Partire, che in due versi, “Il tempo ora / batte l’attimo, si rinutre di sé”, coglie  nell’inconsistenza delle attuali narrazioni un tratto desolante della nostra età. Ma è con Animali come noi che Vito Bianco perviene ad una originalità espressiva densa di significato. Nel suo bestiario, alieno da velleità didascaliche, si affollano come in un caravanserraglio l’asino, sulle cui “solide reni” gravano “tutte le pazienze della terra”, la malinconia del cavallo che “selvatico non conosceva ippodromi, né cavalcate cinematografiche”, e il lupo, a cui va resa “ritardata giustizia”, a lui e alla notte sua compagna con cui “va sempre insieme”.

         Dalla tradizione “zoofila” del ‘900 italiano, rivelata da Pascoli, Saba, Montale, Govoni etc., Vito Bianco ritaglia uno spazio di autonomia. Il suo bestiario è solo, per quanto oltremodo significativo, una divagazione, meglio un divertimento, per stessa ammissione dell’autore; forse da intendere nel duplice significato di rivolgere altrove l’ossequio agli attributi canonici della poesia, ed essere diverso da una procedura linguistica che offre ambiti angusti ai rilievi eversivi del processo creativo.

         Animali come noi dice inoltre di un grande pappagallo, l’ara scarlatta, “lampo rosso che solca il cielo centroamericano”, “che d’improvviso è capace di ammazzare”: animale come noi, appunto.

Di Bac Bac