di Alfonso Lentini


La cancellazione in certi casi è una prassi. Personaggi che hanno osato pensare l’idea di speranza con libertà inventiva, forse perché incompatibili con la penuria di spinte ideali del nostro tempo, vengono di fatto espulsi dall’odierno dibattito culturale o al massimo relegati al ruolo di minori; e se ne accenna appena, quando capita. Penso, per citare i primi nomi che mi vengono in mente, ad Aldo Capitini, Ernesto Balducci, Giuseppe Dossetti, Mauro Rostagno, Alex Langer, Tiziano Terzani, Gino Strada: socialisti senza partito, cristiani senza chiesa, rivoluzionari senza fucile, animati da assoluta indipendenza intellettuale, hanno avuto il coraggio di “inventare il futuro” (e agire di conseguenza) fuori da schemi ideologici. Hanno tentato di volare alto, spesso pagando di persona il prezzo delle loro scelte.

Tuttavia non se ne parla o se ne parla a stento, neppure in occasione di importanti anniversari, come nel caso di Danilo Dolci che nel 2024 avrebbe compiuto cento anni. Fra i pochi segnali di attenzione nei confronti di questa importante figura di sociologo, teorico della non violenza, “maestro di civiltà” vi è un libro significativo già dal titolo (perché già in sé denuncia questa sorta di rimozione collettiva): Ci hanno nascosto Danilo Dolci (con introduzione di Salvatore Ferita e postfazione di Amico Dolci, Navarra editore, 2024) del siciliano Giuseppe Maurizio Piscopo.

Personaggio poliedrico (sopraffino fisarmonicista e compositore, entusiasta maestro elementare, giornalista, autore di vari libri), Piscopo ha dato alle stampe un volume irrituale, che comincia con una lunga premessa di taglio emotivo, scritta a squarci emozionali, e poi via via si svolge in una serie di testimonianze e interviste a personaggi che con Dolci hanno interagito significativamente (Nino Fasullo, Pino Lombardo, Cosimo Scordato, Maria Di Carlo, Marco Simonellli, Giuseppe Carta, Gianluca Fiusco, Salvatore Di Marco, Leonardo Sciascia, Piero Calamandrei). E a sottolineare l’originalità della pubblicazione, un vero e proprio inserto musicale, “Spine Sante”, eseguito alla fisarmonica dallo stesso Piscopo insieme a Pier Paolo Petta, che costituisce una specie di colonna sonora in accompagnamento alla lettura.

Sfogliando le pagine di questo libro, chi ha vissuto la gioventù in Sicilia intorno agli anni sessanta/settanta schierandosi, come allora sembrava più facile fare, contro mafia e potere, non può fare a meno di tornare con la memoria alle lotte dei terremotati del Belice. Danilo Dolci è stato uno dei protagonisti di quel movimento vasto e ramificato, ma insieme a Dolci, e a volte anche indipendentemente da lui, nello stesso territorio si muoveva (negli anni a ridosso del sessantotto) un grumo di tensioni creative che dalla politica andava al linguaggio, alla cultura, alla sperimentazione di nuovi metodi di lotta. Se da un lato Dolci già dagli anni cinquanta teorizzava la resistenza non violenta e lo “sciopero a rovescio”, sino a dar vita nel 1970 alla prima radio libera italiana (che fu subito chiusa della polizia dopo appena 27 ore di trasmissione), Lorenzo Barbera, dalla sua postazione di Partanna (l’allora famosa baracca Martin Luter King), organizzava forme di lotta radicali e altrettanto anomale, come ad esempio la clamorosa renitenza di massa al servizio di leva (che riprendeva e dava forma politica a una ribellione spontanea dei giovani meridionali dell’età post-risorgimentale). La Valle del Belice era diventata un inaddomesticabile laboratorio politico.

Per partecipare alle manifestazioni dei terremotati, partendo da Favara insieme ad altri giovani, affrontavo viaggi on the road attraverso le lande assolate della Sicilia che giorno dopo giorno mi appariva sempre più immensa e incomprensibile. Con Lorenzo Barbera – ricordo i suoi occhi grandi e celesti e le enormi sopracciglia – era facile entrare in rapporto. Accoglieva tutti, ci portava in giro, ci presentava persone, ci trovava da dormire. Le discussioni con lui sono state la base di una graduale presa di coscienza che mi ha spinto in quegli anni ad assumere posizioni di massima intransigenza contro ogni tipo di sfruttamento.

C’era in quei luoghi e in quegli anni un senso di apertura, un desiderio di “ricostruzione” che risuonava nuovo nelle mille parlate e nelle mille lingue che mi giungevano alle orecchie. Alla Valle del Belice convergeva gente da ogni parte del mondo: tedeschi, inglesi, francesi. Arrivavano per solidarietà, per desiderio di nuove esperienze, per fare, come si diceva allora, “lavoro politico” insieme alla gente del Sud. Si abitava nelle stesse baracche dei terremotati, si formavano strane aggregazioni di sapore vagamente hippy, si viveva liberamente nelle “comuni”. Quel brulicare di voci e di gente era un respiro a pieni polmoni, per la prima volta tanti giovani che finora avevano vissuto negli ambienti asfissianti dei piccoli centri siciliani potevano finalmente “annusare l’universo” e le sue mille facce (fra cui alcune bellissime, quelle di certe ragazze appena arrivate dal Nord Italia). Il primo incontro con questo mondo sognante, abitato da strani elfi che cercavano di riannodare l’utopia alla storia, l’ho avuto in occasione di una “Marcia per la pace” che ebbe fra i tanti promotori   anilo Dolci e Lorenzo Barbera. Ricordo benissimo, anche se allora avrò avuto solo sedici anni, i dibattiti che si fecero in un’affollata chiesa valdese di Agrigento insieme a cattolici, comunisti e giovanissimi capelloni. Ho stampati nella memoria persino i colori vivaci dei volantini (rossi viola gialli azzurri) che svolazzavano allegri. Ricordo un’altra assemblea popolare che però non so collocare nel tempo, affollatissima, un po’ anarchica, che si svolse a Partanna dentro al  grande tendone di un circo, con le altalene dei trapezisti che oscillavano sulle nostre teste e con i piedistalli degli elefanti ammassati in un angolo. Ricordo i titoli accesi di Pianificazione Siciliana, la rivista che ebbe il coraggio di sostenere con un cubitale SIGNORNÒ la scelta di disobbedienza civile dei giovani del Belice che rifiutavano la leva.

Come me, tanti altri non possono non ricordare. Eppure di quel mondo, forse, rimane solo qualche briciola.

Piscopo col suo libro su Dolci tenta di arpionare una traccia. Ma fra le briciole, va annoverato almeno un altro libro prezioso, L’infanzia è un terremoto di Carola Susani, uscito ormai da qualche tempo (per Laterza nel 2009), che racconta quegli anni da un punto di vista che più sbilanciato non si può, quello di una bambina, oggi affermata scrittrice, che insieme ai genitori politicamente impegnatissimi, visse la sua “epica” infanzia bighellonando curiosa fra quelle baracche così cariche di passioni. E che, qualche anno dopo, torna ad ambientare nello stesso panorama un suo romanzo, Terrapiena (minimum fax, 2020), che racconta una storia drammatica e crudele, dilatata in una dimensione visionaria, ma realistica nella sostanza.

Di Bac Bac