di Alfonso Lentini
I
emergi dal barcone e a chi ti accoglie
concedi infreddolita
un sorriso sbandato, la tua mano
perde sangue, sei viva,
parli piano:
non cercato, voluto,
ho soltanto lasciato
che l’esistenza mi scorresse addosso
con l’acqua della doccia
che lava la salsedine e la sabbia,
niente rabbia o rancore
eppure quattro figlie
modellate dal nulla
ho donato al pianeta,
ho abitato sei case,
le ho lasciate pulite
dopo averle svuotate
di tutto
abitavo gli alberghi
se suonavo ai concerti
o alle feste da ballo
e la notte veniva
a trovarmi un amore
sempre nuovo e mordace
rapace
però un giorno è arrivata la sberla,
perché l’esistenza è fuggire,
inseguire sparire
ricomparire là
dove non ti si aspetta,
perché la vita è gatta,
una merla
che cova la luna
II
era una data dubbia, una di quelle
certo mai registrata
nei quaderni di scuola o nei regesti
la tua cella volante ti portava
a sfiorare dall’alto Dolomiti
dai ghiacci accoltellata
da grida in verticale
senza le carte adatte
varcavi a quattro zampe
i confini degli orti, dei pianeti
timbravi passaporti
palesemente finti
strisciavi, arrampicavi
le rampe di scale ossidate,
non contenta tranciavi
le reti metalliche, i fili
spinati, superavi
la bordura agguerrita,
i cespugli di cardo e cento dita
III
ti ho vista, eri delfina, che sterzavi
ed uscivi di strada
vento e spada
amputavano netti i tuoi passi
le scarpe da montagna insufficienti,
denti stretti, fischiavi
la cantica sbagliata
fatta a pezzi
fra camicie di gelo
e legacci di jazz
IV
di mezzelune tinta, coronata
di spine, hai reciso
il collare che ti legava al mare
sei sconnessa, approdata
al cortile di sassi, ai tralicci
dell’alta tensione
V
di notte nei bagni del treno
ti infrattavi sfrontata
raccontavi savane, carezzavi la neve
e quel gerundio appeso al reggiseno
era un sollievo breve